Diario di prigionia inedito di un granatiere della Grande Guerra
Pagine estratte dal diario di prigionia inedito di un granatiere della Grande Guerra, in possesso dell’Istoreco
Trascrizione a cura della professoressa Luana Ribecai
Il paese era stato circondato dai Tedeschi: si ebbe qualche mischia, dei morti e infine fummo fatti prigionieri. Eravamo più di mille e fummo tutti incolonnati: ufficiali e soldati mischiati. Pochi nemici armati ci scortarono fino a Campoformio, dove arrivammo stanchi ed assetati alle undici. Ivi fummo divisi ed un ufficiale tedesco ci accompagnò in una casa dove ci perquisì e ci sequestrò il portafoglio, che poi ci restituì la mattina appresso. Nella su detta casa una buona donna ci offerse della polenta, del tomino e un fiasco di vino. Ci rifocillammo alla meglio e di poi riposammo sopra a un mucchio di paglia. La mattina bevuta una tazza di latte, ricevemmo l’ordine di recarci a Udine. Eravamo sette amici e tutti e sette a piedi alle ore dodici del giorno 31 eravamo ad Udine. All’ingresso della città, dentro un magazzino, trovammo qualche cosa da mangiare, quindi ci recammo nella piazza principale. Negli edifici pubblici era issata la bandiera tedesca: il saccheggio delle città cominciato dai nostri soldati, fu finito dai nemici. Piangemmo sulla triste vicenda della ricca città: case devastate, edifici in fiamme, strade ingombre di carri e masserizie. Qui e là dei morti, colpiti probabilmente dai Tedeschi che avevano avuto ordine di far cessare il saccheggio. Naturalmente non per sentimentalità ma per continuarlo loro sistematicamente a tempo e a luogo. Alle ore quattro ci incamminammo verso Cividale: ufficiali in testa alla colonna, i soldati indietro. Ci avevano promesso che giunti a destinazione ci avrebbero dato da mangiare. Alle 9 arrivammo a destinazione: fummo messi nel campo di concentrazione che noi per l’avanti avevamo preparato per i tedeschi: ironia della sorte. Contro (?) i soldati che si affollavano per il mangiare puntavano le mitragliatrici, noi fummo rinchiusi nelle baracche. Non ci fu dato un briciolo di pane: io divorai una scatola di carne in conserva che avevo nel mio tascapane. Ci sdraiammo sul tavolaccio e dormimmo. Il giorno dopo, primo agosto (NOTA probabile refuso per novembre), ci fecero uscire e in un campo lì vicino avendo trovato delle pannocchie di granturco le mangiammo crude come erano. Di mangiare non se ne parlò per tutta la giornata: i tedeschi dicevano che non avevano nulla, perciò dovevamo pazientare fino a Tolmino. La sera ci mettemmo in marcia: marciammo tre giorni, riposando in aperta campagna, con un freddo intenso e una fame che dilaniava lo stomaco. Diversi soldati morirono di stenti lungo la strada, qualche ufficiale fu ricoverato in qualche ospedaletto da campo. Noi ci nutrivamo di erbe e di radici: la volontà di vivere ci sosteneva. A Tolmino giungemmo il quattro a sera: ma anche qui ci riprese la disperazione. Non ci fu dato un tozzo di pane: dicevano che non ne avevano nemmeno per loro. Agli ufficiali superiori fu dato un pane di due chili ogni venti: noi restammo a guardare. Alle cinque del giorno 5 novembre riprendemmo la via: sempre a piedi. Raggiungemmo Crahovo (Grahovo, Slovenia) dopo tanti stenti: finalmente ci dettero lì 300 grammi di pane a testa: pane nero ed ammuffito, ma che sembrò una linotte (?), [in italiano fanello, un uccellino, forse sta per cibo prelibato] a noi poveri disgraziati con lo stomaco vuoto ed affamati. Dopo una breve sosta con santa pazienza ci rimettemmo in cammino e finalmente raggiungemmo Iudenzza (Hudajuzna, Slovenia), dove vi era la stazione dove dovevamo prendere il treno. Avevamo marciato sei giorni, avevamo sofferto spaventosamente sei giorni, avevamo compiuto a piedi in sei giorni una marcia di km 180. Ci fermammo alla stazione per attendere il treno: fortuna volle che durante l’aspettativa, per il mio orologio ebbi da un impiegato della stazione un pane di due chili, una scatola di carne in conserva e venti corone. Mangiai avidamente e acquietai lo strazio dello stomaco. Alle sei di sera giunse il treno: eravamo lì intorno a settecento ufficiali. Fummo gettati, mi sia permessa l’espressione, dentro vagoni da bestiame: quaranta per ogni vagone. Si moriva dal freddo: il treno camminava a piccola velocità: verso le due del mattino giungemmo a Lubiana, scendemmo e passammo l’intero giorno in un gran casamento a quattro chilometri dalla città. La nostra odissea ancora non era finita. Ci fu dato un pezzo di pane e un cucchiaio di marmellata e verso sera fummo ricacciati nei carri bestiami. Venimmo a sapere che ci portavano in Germania e che non ci avrebbero più fatto scendere se non si arrivava a destinazione. Faceva freddo e noi si aveva in dosso la sola mantellina. Il viaggio fu disastroso. Una volta al giorno ci aprivano il vagone, dove ci avevano ammonticchiati (?), ci facevano scendere, e ci davano un pezzo di pane e un cucchiaio di una minestra che soltanto la terribile fame ci faceva divorare. Cinque giorni e cinque notti stemmo in quel treno: per cinque giorni e cinque notti maledimmo la Germania e la sua malvagità.
Attraversammo l’Austria e dopo un giorno che viaggiavamo in territorio tedesco fummo fatti scendere. Si era in aperta campagna. Fummo accompagnati in un gran baraccone ben riscaldato. Quello era il posto dove tutti i prigionieri dovevano subire la disinfezione dei panni e della persona. Ognuno di noi fece un rotolo dei propri indumenti e fummo portati in un altro camerone: ivi li lasciammo e in un altro locale noi tutti fummo messi sotto una doccia ed ivi ci lavammo. Ci dettero indi una camicia e ci recammo in un altro locale dove ci somministrarono una minestra di orzo e ci dettero un pezzo di pane. Divorammo l’uno e l’altra e poscia ci rimettemmo indosso i nostri abiti disinfettati. A mezzanotte ci rimisero in treno: questa volta però in vagoni di quarta classe: esistono anche le quinte classi in Germania. Alle ventitré del giorno 12 finalmente raggiungemmo il campo di concentrazione. Era il campo dove venivano inviati i prigionieri Russi.