I livornesi e il trauma dello sfollamento
Enrico Acciai (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”)
«In una città devastata come Livorno», scriveva nel marzo del 1950 Furio Diaz riferendosi agli anni appena trascorsi, «di fronte a problemi di ricostruzione, di ripresa morale e materiale della vita cittadina quali quelli che qui si presentavano, nessuno poté restare insensibile». A quasi cinque anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, Diaz sottolineava quanto fosse difficile per la città labronica risollevarsi dalle ferite subite durante il conflitto. Non si trattava di frasi di circostanza. Livorno era veramente uscita devastata dal biennio 1943 – 44. La Seconda guerra mondiale era stato un conflitto totale, e i cittadini labronici lo avevano drammaticamente vissuto sulla propria pelle. Alla distruzione di buona parte del tessuto urbano, era seguito uno sfollamento in massa che aveva sconvolto le vite dei livornesi.
Prima erano arrivate le bombe. Livorno fu infatti duramente colpita in occasione della campagna aerea della primavera del 1943, quando le fortezze volanti alleate arrivarono lungo tutto il litorale tirrenico, centrando in particolare i centri industriali. Era scontato che il porto e le industrie livornesi finissero nella lista degli obbiettivi alleati. Nonostante questo, le autorità locali e nazionali fecero ben poco per salvaguardare la popolazione labronica. La città venne duramente bombardata a cadenza quasi mensile: prima il 28 maggio, poi il 28 giugno e infine il 25 luglio. Sin dal bombardamento di fine maggio, la popolazione civile cominciò a sfollare verso le campagne. Un testimone avrebbe ricordato le lunghe file di gente “sgomenta e disperata” che affollavano le strade che portavano fuori città. Quella sera un parroco della frazione di Vada segnò sul proprio diario l’arrivo di varie centinaia di persone provenienti da Livorno. Il giorno dopo la stazione fu letteralmente presa d’assalto da famiglie che provavano a lasciare Livorno su qualsiasi treno in partenza.
Era cominciato il caos. I bombardamenti di maggio e di giugno dimostrarono ai livornesi come le loro vite fossero destinate a cambiare radicalmente nel corso dei mesi successivi. I legami amicali si sfaldarono rapidamente: generalmente ci si muoveva in fuga divisi in piccoli nuclei familiari e divenne difficile, se non impossibile, mantenere rapporti che andassero oltre quest’ambito ristretto. La maggior parte sfollò in provincia di Pisa, ma alcuni andarono ancora più lontano arrivando fino a Firenze, o Lucca o Pistoia, a sud in migliaia di cittadini si riversarono lungo la litoranea arrivando nel grossetano. Nell’agosto del 1943 il prefetto di Firenze comunicò che avrebbe rimandato indietro i livornesi che arrivavano troppo numerosi nell’area sotto la sua giurisdizione. In quelle stesse settimane il podestà di Livorno si lamentava del caos che vigeva: «L’improvviso, tumultuoso esodo della popolazione dalla città», scrisse in una comunicazione al prefetto dalla sua città, «ha creato e mantiene una situazione sociale di eccezione e di gravità tali, da rischiare di compromettere irrimediabilmente ogni principio morale, igienico ed economico della popolazione stessa e della località di occupazione». Le autorità fasciste cittadine, dando prova di incompetenza e impreparazione, persero rapidamente il controllo della situazione. La presenza degli sfollati livornesi in mezza regione rendeva eclatanti tanto le debolezze del regime italiano quanto l’inconsistenza dei sogni di grandezza del Duce. A San Miniato, nei primi mesi del 1944, sarebbero stati censiti circa 5.000 sfollati, in gran parte livornesi. Il piccolo paese di Valdicastello, in lucchesia, che prima della guerra contava solo 1.000 residenti, nell’estate del 1944 avrebbe ospitato quasi 30.000 sfollati, tra cui moltissimi livornesi.
Visto quello che era successo tra maggio e luglio, buona parte dei livornesi visse l’8 settembre del 1943, e le concitate giornate che seguirono, da sfollato. Questo mentre i tedeschi occupavano il porto della città. Passarono appena due mesi e nel novembre di quello stesso anno gli occupanti decretarono la cosiddetta Zona Nera: ai pochi cittadini rimasti fu intimato di lasciare l’area e Livorno divenne una città fantasma. Le stesse autorità collaborazioniste della Repubblica Sociale Italiana si si spostarono in altre sedi: la prefettura e la questura finirono, ad esempio, a Castell’Anselmo, vicino a Collesalvetti. Fu in quei giorni che la provincia livornese collassò definitivamente sotto il peso dello sfollamento. Quanti sfollarono da Livorno? Vista la frammentarietà delle fonti è impossibile fornire un numero preciso, ma si si può parlare di almeno 90.000 sfollati.
La vita dello sfollato si rilevò generalmente misera: spesso era impossibile assicurarsi anche solo un pasto giornaliero. «Si patisce la fame», avrebbe ricordato uno di loro, «si stringe la cinghia. Si va in cerca in tutte le coloniche di farina, olio, salumi, ortaggi, frutta, in una parola di qualsiasi cosa commestibile». Andarsene dalla propria casa, scappare dalle bombe non era facile e questa fuga, spesso caotica e improvvisata, cambiò il volto di tutta la società italiana tra il 1942 e il 1945, non solo di quella livornese. Gli sfollati erano distribuiti in un ambiente nuovo, dove erano obbligati a reinventarsi la vita, in una condizione più precaria di quella che avevano abbandonato. Lasciare la propria casa, allontanarsi dal lavoro, dagli affetti e dalle reti amicali, significava veder implodere il proprio mondo nel giro di poche ore. All’angoscia per il futuro si sommava anche il timore, e la quasi certezza, che le proprietà che si lasciavano incustodite sarebbero state depredate dai ladri che si nascondevano tra chi rimaneva in città. Generalmente, si sfollava verso le campagne e questo ribaltò le gerarchie, sociali ed economiche, il rapporto tra città e campagna, tra contadino e cittadino. Nelle campagne, lontano dai grandi centri urbani, nacque un mondo nuovo sul quale è importante riflettere. Tra coloro che erano sfollati prima del luglio del 1943, ad esempio, si produsse più velocemente che tra altri gruppi sociali uno scollamento dalla propaganda ufficiale di Regime. Decenni di retorica roboante si infransero sulla dura realtà di autorità locali e nazionali incapaci di gestire la fuga dalle città. Si trattò di un processo che influenzò, e forse determinò, la storia italiana in quei mesi. Tra l’estate del 1943 e la primavera successiva gli italiani sfollati erano milioni. Il fenomeno fu particolarmente rilevante in Toscana: l’area di Firenze, con circa il 18% della popolazione residente sfollata, fu quella più colpita. Si calcola che oltre la metà dei tre milioni di toscani fu coinvolta: non sfollarono quelli che già vivevano nelle campagne. Ma la città che soffrì maggiormente lo sfollamento fu senza dubbio Livorno: «Livornesi sfollati», si poteva leggere sulle colonne de Il Telegrafo a metà dicembre 1943, «se ne trovano un po’ ovunque in Toscana».