La Resistenza dei cattolici livornesi
Gianluca della Maggiore (Università Telematica Internazionale “UniNettuno”)
Chi volesse tracciare una mappa dei centri di formazione che da Livorno a Piombino condussero molti a prender la via di una Resistenza attiva al nazifascismo si stupirebbe forse di trovarvi tra quelli principali (e più precocemente organizzati) le quattro mura pacifiche di un seminario di preti. Eppure – il dato storico è ormai acquisito – il seminario “Girolamo Gavi”, annesso al quartier generale della diocesi di Livorno, e ancor oggi fucina dei suoi preti, fu nel corso degli anni Trenta uno dei più straordinari laboratori d’incubazione di fermenti antifascisti per l’intera provincia livornese. Proprio negli stessi anni in cui maturavano le condizioni del connubio clerico-fascista che portò buona parte delle gerarchie ecclesiastiche italiane a benedire solennemente gli appetiti imperiali di Mussolini per «un posto al sole» in Abissinia, nel chiostro di via del Seminario studiavano gomito a gomito quattro figure destinate a lasciare un segno indelebile negli anni bellici e postbellici: don Roberto Angeli e don Amedeo Tintori, che a Livorno a partire dal 1940 misero in piedi una vera e propria scuola pubblica di antifascismo, don Ivon Martelli, che per qualche tempo presiedette il Comitato di liberazione nazionale di San Vincenzo e don Ivo Micheletti, che arrivò a capo di quello di Piombino.
LA SCUOLA DI PICCIONI. Minimo comune denominatore della loro esperienza di formazione fu, senza dubbio, l’influenza esercitata dal vescovo Giovanni Piccioni che a Livorno rimase quasi un quarantennio (dal 1921 al 1959), ma che negli anni cruciali 1924-1933 poté estendere il suo magistero fino a Piombino e all’Elba chiamato da papa Pio XI a reggere in parallelo la diocesi di Massa Marittima-Populonia. Strana figura di vescovo: il portamento aristocratico, i modi compassati, le esternazioni pubbliche prudenti (tanto che si diceva fosse amico del federale di Livorno Umberto Ajello) e la fine erudizione (dantista di valore: suo habitat naturale erano i ventimila volumi della sua biblioteca), celavano uno spirito “politico” tanto limpidamente elaborato quanto raffinatamente veicolato. Don Micheletti ricordava le sue lezioni peripatetiche passeggiando lungo i corridoi del Gavi seguito da un codazzo di seminaristi: «Egli ci parlava dei tre dittatori: Hitler, Stalin e Mussolini e riferiva il giudizio di un autore dato a lui in esame: “fra questi tre, il nostro è il meno duro. Almeno, così dicono!…». D’altronde negli anni pre-livornesi a Pistoia, Piccioni si era fatto fama di prete democratico-cristiano e dopo la Grande guerra, da vicario generale della diocesi, era entrato in rotta di collisione con il primo squadrismo in camicia nera. Inseriti in questo percorso non stupiscono né l’influenza che il vescovo esercitò nella formazione del fratello più piccolo Attilio, poi leader nazionale di punta della Dc degasperiana, né il fatto che tramite l’altro fratello Ulisse, questore a Torino, egli si procurasse letture vietate dal regime che poi metteva a disposizione dei suoi seminaristi. Fu così, ad esempio, che al Gavi di Livorno si poté leggere nella sua prima stesura in francese del 1936 l’Humanisme Intégral di Jacques Maritain.
CULTURA COME RESISTENZA. Può comprendersi dunque perché nel gennaio 1943 Piccioni non si fece scrupolo neanche nell’accogliere nella sua diocesi il lucchese don Antonio Vellutini, il quale era noto per il suo sbandierato antifascismo (tanto da esser inviato per qualche anno in una sorta di confino presso Montalto Uffugo in Calabria) e che, non a caso, presiedendo il Cln di Vada, fu assoluto protagonista delle azioni di difesa della popolazione contro l’occupante tedesco nel paese della costa livornese. Ma è chiaro che, su queste basi, l’apporto più originale che poteva scaturire dalla scuola di Piccioni fosse quello di una Resistenza declinata soprattutto in chiave culturale. Non esiste, in questo senso, in tutto il cattolicesimo toscano un caso che assomigli a quello livornese: proprio nei giorni in cui il duce annunciava che era scoccata «l’ora delle decisioni irrevocabili» facendo precipitare l’Italia nel baratro della guerra mondiale, a Livorno, in una saletta attigua alla chiesa di S. Giulia, studenti, operai, allievi dell’Accademia Navale, potevano assistere a pubbliche lezioni in cui venivano apertamente criticate le tesi naziste e il concetto fascista dello stato. «Dio creò l’uomo, non l’uomo ariano», fu, ad esempio, l’incipit di una delle più note lezioni di quel Cenacolo di Studi. Erano provocazioni culturali del tutto eccezionali, la cui ideazione si dovette in particolare all’intuito e al carisma di don Angeli e don Tintori, che Piccioni volle alla guida degli universitari cattolici fin dal 1939. Ma fu soprattutto don Angeli a rielaborare più audacemente la lezione piccioniana sfociando in un percorso esplicitamente politico: dopo il seminario l’immersione nell’ambiente internazionale della Gregoriana a Roma lo inserì in un circuito di relazioni (Guido Calogero, Giorgio La Pira, Igino Giordani, Enzo Enriques Agnoletti) che lo portarono a maturare la consapevolezza di una chiara antitesi tra il cristianesimo e il totalitarismo nazifascista. Da qui la «scuola pubblica di antifascismo» livornese che fu il prodromo alla nascita nel 1942 della sezione livornese del Movimento cristiano sociale (Mcs) fondato l’anno prima da Gerardo Bruni a Roma. Un movimento che, come è stato felicemente definito, ha costituito «una specie di Partito d’Azione cattolico». Entrambi i partiti videro infatti nella Resistenza la speranza di una palingenesi generale: della società, dello Stato, della politica, a cui i cristiano-sociali aggiunsero anche l’esigenza di un profondo rinnovamento della Chiesa.
UNA DIOCESI SFOLLATA. È su questi presupposti che il Movimento cristiano sociale livornese impostò il suo originale contributo politico-assistenziale nell’ultimo anno di guerra, in un quadro di riferimento messo però totalmente a soqquadro dal forzato esodo di massa della città. Uno degli aspetti fino ad oggi venuti meno in luce nella storia di Livorno dell’annus horribilis 1943 (che portò allo sfollamento, secondo le stime degli alleati, di circa 110.000 livornesi su 130.000) riguarda il modo in cui le vicende di quei mesi influirono sul declinarsi della fisionomia dell’impegno dei cattolici livornesi nella Resistenza. Don Angeli, rimasto a Livorno fino al suo arresto da parte della Gestapo nel maggio 1944, non solo riuscì a costruire un solido rapporto con le forze dell’antifascismo livornese che garantì al movimento un ruolo non secondario nel quadro del Cln locale, ma fece in modo di modellare l’azione del suo gruppo fidando sul sistema di relazioni creato con il clero della provincia, con gli ambienti vaticani e con i livornesi sfollati in regione e fuori. L’abbandono della città di molti preti, ma anche di laici legati al Mcs, influì in maniera rilevante sul modo in cui vennero a plasmarsi le reti di assistenza, le forme di resistenza civile e di lotta partigiana dei cattolici livornesi: più che altrove infatti le azioni messe in atto da clero e laicato si configurarono su scale regionale e molto meno sul piano locale. Basta un solo dato per capire la portata degli eventi: tra il novembre 1943 e l’agosto 1944 il gruppo che faceva capo a don Angelì riuscì a correre in soccorso a circa 1500-1600 prigionieri alleati nascosti in varie parti della Toscana e dell’Emilia, portando, tramite i canali della Santa Sede, aiuti in denaro, indumenti, viveri e medicinali. Fu così che la resistenza culturale riuscì a sfociare in una grande rete di resistenza attiva.