Le epidemie nelle testimonianze letterarie: Tucidide, Camus e Liu Kui
Tucidide
La guerra del Peloponneso cap. 47-53
Descrizione della peste che colpì Atene nel quarto secolo
47] Sul cominciare dell’estate i Peloponnesiaci e i loro alleati, con due terzi delle milizie, come l’anno prima, irruppero nell’Attica (li comandava Archidamo, figlio di Zeussidamo, re di Sparta ) e, postovi il campo, si diedero a devastare il paese. Erano nell’Attica da pochi giorni, quando fece la sua prima comparsa fra gli Ateniesi la peste: anche prima si parlava di pestilenze scoppiate in molte parti, a Lemno ad esempio, e altrove, ma tuttavia in nessun luogo, mai a memoria d’uomo, si ricordava un simile flagello e una strage così grande di uomini. Né i medici erano in grado di combatterla, per imperizia, dato che si trovavano a curarla per la prima volta; anzi, essi stessi in modo particolare, morivano, in quanto più di tutti s’accostavano ai malati; ogni altro umano accorgimento era inefficace. E quante suppliche nei templi, quanti ricorsi agli oracoli e ai divini aiuti! Tutto fu inutile.
Alla fine, da tutto ciò si desistette, sopraffatti dalla violenza del male.[48] Fece la sua prima apparizione, a quanto si racconta, in Etiopia, oltre l’Egitto: poi dilagò anche nell’Egitto, in Libia e nella maggior parte del regno di Persia. […][49] Quell’anno, a detta di tutti, era stato assolutamente immune da ogni altro genere di malattia: e se qualcuno già prima aveva qualche malanno, tutti si convertivano in questa. Gli altri, senza alcun apparente motivo, all’improvviso, da sani che erano, dapprima venivano presi da violente vampate alla testa, gli occhi diventavano rossi e gonfi, e gli organi interni, come la faringe e la lingua, subito si facevano sanguinolenti e l’alito fetido oltre l’usato. Poi sopraggiungeva lo starnuto e la raucedine e in breve il male scendeva nel petto provocando tosse violenta. Quando si localizzava nello stomaco, ne venivano le nausee e tutte quelle secrezioni di bile che i medici descrivono e per di più accompagnate da forti dolori. La maggior parte veniva presa da conati di vomito a vuoto, provocanti una convulsione tremenda, che ad alcuni passava subito, ad altri invece durava molto a lungo. Il corpo, all’esterno, non presentava eccessivo calore al tocco, né pallore alla vista; ma piuttosto era rossastro, livido, tutto coperto di piccole piaghe e ulcere; di dentro, invece, gli ammalati erano bruciati da un calore così ardente da non poter tollerare il contatto dei più leggeri vestiti, o drappi finissimi o altri indumenti: solo nudi resistevano, con una pazza bramosia di gettarsi nell’acqua fresca: anzi molti lo fecero, eludendo la sorveglianza dei loro cari, e si gettarono nei pozzi, da inestinguibile sete divorati: il bere molto o poco, però, arrecava lo stesso risultato.
L’ impossibilità , poi, di riposare e l’insonnia erano un continuo tormento. Il corpo, per tutto il tempo in cui la malattia era allo stato acuto, non illanguidiva, ma resisteva alla sofferenza oltre ogni credere; sicché la maggior parte o moriva dopo sette o nove giorni, distrutti dall’interna arsura, ma ancora in forze; ovvero, se il malato riusciva a superare questo periodo, il male si estendeva all’ intestino e allora, sopravvenendo qualche grave ulcerazione accompagnata da violenta diarrea, i più, a causa di questa, spiravano per esaurimento.
Passava infatti attraverso tutto il corpo il male che s’era prima localizzato in alto, nel capo: e se uno sopravviveva alle più gravi complicazioni, la malattia lasciava il suo segno, almeno nelle parti estreme. Intaccava, infatti, anche le vergogne e le punte delle mani e dei piedi; e molti che scamparono perdettero l’uso di queste parti, e alcuni, anche degli occhi.
Ci fu chi, subito, appena guarito, fu colpito da una completa smemoratezza di tutto, al punto di non aver più coscienza di se stesso e non riconoscere i propri famigliari. […] Ma di tutto il male la cosa più terribile era lo scoramento da cui venivano presi quando s’accorgevano d’aver contratto il morbo (subito, infatti, in piena lucidità di mente, buttandosi in preda alla disperazione, s’abbattevano molto di più di quello che avrebbero dovuto e perdevano perfino la volontà di lottare) e siccome cercavano di curarsi l’un l’altro, morivano di contagio, come le pecore. Ciò provocò la più vasta mortalità. Se, per timore del contagio, evitavano d’accostarsi, morivano poi in solitudine e molte case si spopolarono perché mancava chi prestasse le cure necessarie. Se poi qualcuno si avvicinava agli appestati, moriva ugualmente; ed erano soprattutto quelli che volevano dar prova di magnanimità. Spinti dal senso d’onore, mettevano a repentaglio la vita visitando gli amici, mentre al contrario, anche i loro congiunti, vinti alla fine dall’orrore del male, non riuscivano più a sopportare i lamenti dei moribondi.
Maggior compassione tuttavia mostravano, verso chi moriva e chi col male lottava, coloro che erano sfuggiti alla violenza della peste, sia perché essi stessi prima avevano provato qual sofferenza fosse, sia pure perché erano ormai al sicuro: non si ricadeva, infatti, una seconda volta nel male, o, almeno, l’eventuale ricaduta non portava alla morte. Invidiati dagli altri, essi stessi, nell’esaltazione del momento, nutrivano la vana speranza che, per l’avvenire, nessun’ altra malattia li avrebbe più potuti domare. […]
Furono sovvertite tutte le consuetudini che prima regolavano le sepolture, e seppelliva ognuno come poteva. Molti fecero ricorso a mezzi di sepoltura indegni per mancanza del necessario, tanti erano stati i cari che fino allora avevano perduto: sicché alcuni, quando vedevano un rogo per altri apparecchiato, s’affrettavano a prevenire colui che l’aveva costruito e, postovi il loro morto, vi appiccavano il fuoco; altri ancora, mentre un cadavere ardeva, vi gettavano sopra quello che portavano e fuggivano via.
[53]Cominciò allora, in città, per la prima volta, in seguito alla malattia, una maggiore sfrenatezza di fronte alla legge, anche in altre cose; e più arditamente molti osavano ciò che prima si guardavano bene dal fare a piacimento. Si assisteva a improvvisi capovolgimenti di fortuna: ricchi improvvisamente morivano e gente che prima non possedeva un soldo subentrava improvvisamente nel godimento delle sostanze dei morti. Cosicché, ugualmente passeggere considerando tanto la propria vita quanto le ricchezze, venivano nella determinazione di doversi affrettare a godere dei beni e al piacere rivolgere ogni cura. Nessuno si sentiva invogliato a raggiungere con fatica uno scopo ritenuto onesto, dato che non sapeva se, prima di giungere alla meta, non sarebbe caduto in cammino. Ormai tutto ciò che era piacere immediato, e serviva a giungere ad esso da ogni parte, era considerato onesto e utile. Nessun timore degli dei, nessuna legge umana valeva a trattenerli: quanto agli dei, pensavano che non avesse importanza venerarli o meno, al vedere che tutti, allo stesso modo, erano travolti nella rovina; quanto alle colpe verso gli uomini, nessuno sapeva di poter vivere fino a dover subire un processo e scontare la pena relativa; molto più grave, invece, era il castigo, già decretato, che loro pendeva sul capo: prima che ne fossero fiaccati, valeva la pena di goder qualche gioia della vita.
( traduzione di Luigi Annibaletto )
La nota di un medico a tutti i funzionari governativi
La storia di Xin Gongyi è raccontata nel testo medico Songfeng Shuoyi o ‘Songfeng sulle malattie epidemiche’, scritto da Liu Kui, un noto medico della Dinastia Qing che usava l’alias di Songfeng.
Storie dall’antica Cina, il governatore che si occupava dei malati di peste
In un certo periodo dell’antica Cina, a Minzhou, vigeva un costume locale sconcertante: i residenti temevano così tanto la malattia, che durante le epidemie non si facevano scrupoli ad abbandonare i familiari malati per salvare sé stessi.Questo era ancora più sconcertante perché avveniva durante la Dinastia Sui (581-618), in un periodo in cui il valore della “pietà filiale” era già stato stabilito da secoli come tassello centrale della società tradizionale cinese. In questo contesto, venne nominato governatore di Minzhou un certo Xin Gongyi, che fece davvero del suo meglio per rettificare la situazione, dando persino egli stesso l’esempio nel prendersi cura degli infetti.Fu però solo in occasione di una grande epidemia, che le cose cambiarono davvero. In quel periodo terribile, non solo Xin Gongyi rimase sano, ma la sua compassione e generosità commossero sinceramente i residenti, tanto da cambiare le loro abitudini negative. In seguito, un noto medico citò il governatore Xin come un esempio da seguire per i funzionari governativi di tutto il mondo.
Xin Gongyi fu uno studente diligente fin da giovanissimo.
La madre, vedova, gli aveva insegnato personalmente la Storia e i classici. La sua era una famiglia importante: sia il nonno che il padre detenevano importanti posizioni da governatori in diverse provincie. Xin Gongyi stesso era molto ammirato per la sua conoscenza e le sue opinioni: in particolare le sue discussioni con altri studiosi confuciani in università lo resero molto stimato. Era un uomo onesto e retto, con un forte senso di responsabilità. Fu un funzionario governativo di talento e mantenne posizioni di alto livello in diverse parti della Cina prima di venire nominato governatore di Minzhou.
Minzhou si trova in quella che ora è la provincia del Gansu nella Cina nord-occidentale. L’uso di abbandonare i parenti colpiti dalla malattia era cominciato nel periodo dinastico che precedeva la Dinastia Sui. Quando Xin Gongyi arrivò a Minzhou, trovò sconcertante quest’usanza locale, in cui la coscienza, l’affetto e la lealtà sembravano essere svaniti e i principi delle relazioni umane e della pietà filiale avevano preso un posto di seconda fila rispetto all’istinto di sopravvivenza. Molte persone malate morivano infatti per la mancanza di cure. Il nuovo governatore decise quindi di inviare delle persone a ispezionare i vari distretti di Minzhou per identificare i casi di persone malate che venivano abbandonate. In seguito, ordinò che venissero trasportate nel suo ufficio, dove fece loro destinare uno spazio in cui soggiornare e ricevere cure.
All’arrivo dell’estate si diffuse un’epidemia, con centinaia di infetti. Xin Gongyi li fece disporre in dei lettini nella sala principale e nei corridoi del suo ufficio. Nella stessa stanza mise anche un divano, che usava come letto personale, e da cui gestiva anche gli affari pubblici.
Usò inoltre il proprio stipendio per comprare le medicine e pagare i medici, e si prese anche cura in prima persona dei pazienti.
Gradualmente, tutti guarirono e Xin Gongyi fece convocare le famiglie per restituire i loro cari. Si intrattenne anche a parlare con i familiari, riguardo la terribile usanza locale.«Vita e morte sono disposte dal Fato; entrare in contatto con i malati non necessariamente ti metterà in pericolo», disse Xin.«In passato i familiari abbandonavano i loro cari malati e molti sono morti in queste circostanze. Questa volta, come potete vedere, ho tenuto con me tutti gli afflitti e sono stato con loro giorno e notte. Eppure non sono stato preda della malattia e sono rimasto sano e al sicuro, per non parlare del fatto che tutti i pazienti si sono ripresi – spiegò Xin Gongyi a tutti i familiari – Non dovete abbandonare più i malati. Abbandonate questa abitudine del passato». I familiari provarono tutti vergogna al sentire le parole del governatore e quindi lo ringraziarono e ne fecero tesoro. Dopo la fine della peste, i residenti di Minzhou abbandonarono questa abitudine e iniziarono a prendersi cura l’uno dell’altro con genuina bontà e devozione filiale.
Albert Camus
La Peste
Descrizione di una epidemia di peste, immaginata nella città di Orano in Algeria, negli anni 40 del 1900
La parola “peste” era stata pronunciata per la prima volta. A questo punto del racconto, che lascia Bernard Rieux dietro la sua finestra, si concederà al narratore di giustificare l’incertezza e la meraviglia del dottore: la sua reazione, infatti, con qualche sfumatura, fu quella della maggior parte dei nostri concittadini. I flagelli, invero, sono una cosa comune, ma si crede difficilmente ai flagelli quando ti piombano sulla testa. Nel mondo ci sono state, in ugual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati. Il dottor Rieux era impreparato, come lo erano i nostri concittadini, e in tal modo vanno intese le sue esitazioni. In tal modo va inteso anche com’egli sia stato tra l’inquietudine e la speranza. Quando scoppia una guerra la gente dice: “Non durerà, è troppo stupida”. E non c’è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare. La stupidaggine insiste sempre, ce ne accorgeremmo se non pensassimo sempre a noi stessi. I nostri concittadini, al riguardo, erano come tutti quanti, pensavano a se stessi. In altre parole erano degli umanisti: non credevano ai flagelli. Il flagello non è commisurato all’uomo, ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano, e gli umanisti, in primo luogo, in quanto non hanno preso le loro precauzioni. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri […]
E persino dopo che il dottor Rieux ebbe riconosciuto davanti al suo amico che un gruppo di malati, senza preavviso, era morto di peste, il pericolo rimaneva irreale per lui. Semplicemente, quando si è medici, ci si è fatta un’idea del dolore e si ha un po’ più di fantasia. Guardando dalla finestra la sua città che non era mutata, appena appena il dottore sentiva nascere in sé quel lieve scoramento davanti al futuro che si chiama inquietudine. Cercava di raccogliere nella mente quello che sapeva della malattia. Delle cifre gli ondeggiavano nella memoria, e si diceva che la trentina di grandi pestilenze conosciute dalla storia aveva fatto quasi cento milioni di morti. Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando si fa la guerra, appena appena si sa cosa sia un morto. E siccome un uomo morto non ha peso che quando lo si è veduto, cento milioni di cadaveri sparsi attraverso la storia non sono che una nebbia nella fantasia. Il dottore ricordava la peste di Costantinopoli che, secondo Procopio, aveva fatto diecimila vittime in un giorno.[…]
Da questo momento in poi si può dire che la peste fu cosa nostra, di tutti. Sino a qui, nonostante lo stupore e l’inquietudine suscitati da quei singolari avvenimenti, ciascuno dei nostri concittadini aveva proseguito le sue occupazioni, come gli era stato possibile, al suo solito posto. E certamente questo doveva continuare; ma una volta chiuse le porte, si accorsero di essere tutti, e anche lo stesso narratore, presi nel medesimo sacco e che bisognava cavarsela. In tal modo, ad esempio, un sentimento sì individuale come la separazione da una persona cara diventò subito, sin dalle prime settimane, lo stesso di tutto un popolo, e, insieme con la paura, la principale sofferenza di quel lungo periodo d’esilio.
Una delle conseguenze più notevoli della chiusura delle porte fu, infatti, la subitanea separazione in cui si trovarono persone che non vi erano preparate. Madri, figli, sposi, amanti che avevano creduto, alcuni giorni prima, di procedere a una temporanea separazione, che si erano abbracciati sulla banchina della nostra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi pochi giorni o poche settimane dopo, affondati nella stupida fiducia umana, appena distratti, per quella partenza, dalle loro abituali preoccupazioni, si videro di colpo allontanati senza rimedio, impediti di raggiungersi o di comunicare. La chiusura era stata fatta alcune ore prima che il decreto prefettizio fosse pubblicato, e, naturalmente, era impossibile prendere in considerazione i casi particolari. Si può dire che quest’invasione brutale della malattia ebbe per primo effetto di costringere i nostri concittadini ad agire come se non avessero sentimenti individuali. Nelle prime ore del giorno in cui il decreto entrò in vigore, la prefettura fu assediata da una folla di postulanti che, al telefono o presso i funzionari, esponevano situazioni egualmente interessanti e, nello stesso tempo, egualmente impossibili da esaminare. In verità ci vollero parecchi giorni prima che ci rendessimo conto di trovarci in una situazione senza compromesso, in cui le parole «transigere», «favore», «eccezione» non avevano più significato.[…]
La prima cosa che la peste recò ai nostri concittadini fu, insomma, l’esilio…[…]
Quelli che si votarono alle formazioni sanitarie non ebbero sì gran merito a farlo, infatti: sapevano ch’era la sola cosa da fare e che il non decidersi a farla, questo sarebbe stato incredibile. Le formazioni aiutarono i nostri cittadini a penetrare nella peste e li persuasero in parte che, se c’era la malattia, bisognava fare il necessario per combatterla. Siccome la peste, in tal modo, diventava il dovere d’alcuni, apparve realmente quello che era, ossia una faccenda di tutti. Questo è bene.[…]
Per questo era naturale che il vecchio Castel mettesse tutta la sua fiducia e la sua energia nel confezionare dei sieri sul posto, con materiale di fortuna. Rieux e lui speravano che un siero fatto con le colture del microbo stesso che infestava la città avrebbe avuto un’efficacia più diretta dei sieri venuti da fuori: tale microbo, infatti, differiva dal microbo della peste, com’era classicamente definito. Castel sperava di avere assai presto il suo primo siero. Per questo, anche, era naturale che Grand, che nulla aveva dell’eroe, assicurasse ora una sorta di segretariato alle formazioni sanitarie. Una sezione delle squadre formate da Tarrou si consacrava, infatti, a un lavoro d’assistenza preventiva nei quartieri sovrappopolati. Si cercava d’introdurvi la necessaria igiene, si faceva il còmputo dei granai e delle cantine non visitate dalla disinfezione. Un’altra sezione delle squadre aiutava i medici nelle visite a domicilio, assicurava il trasporto degli appestati e anche in seguito, in assenza del personale specializzato, guidò i veicoli dei malati e dei morti. Tutto questo esigeva un lavoro di registrazione e di statistica che Grand aveva accettato di compiere.[…] Dal porto oscuro salirono i primi razzi dei festeggiamenti ufficiali. La città li salutò con una lunga e sorda esclamazione. Cottard, Tarrou, coloro e colei che Rieux aveva amato e perduto, tutti, morti o colpevoli, erano dimenticati. Il vecchio aveva ragione, gli uomini erano sempre gli stessi. Ma era la loro forza e la loro innocenza, e proprio qui, al di sopra d’ogni dolore, Rieux sentiva di raggiungerli. In mezzo ai gridi che raddoppiavano di forza e di durata, che si ripercuotevano lungamente sino ai piedi della terrazza, via via che gli steli multicolori si alzavano più numerosi nel cielo, il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che erano state loro fatte, e per dire semplicemente quello che s’impara in mezzo ai flagelli: che ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare. […]
Ascoltando, infatti, i gridi d’allegria che salivano dalla città, Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata. Sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine d’anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura o insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.
( traduzione di Beniamino Dal Fabbro )