Testimonianze letterarie delle epidemie: Diacono, Borromeo e De Foe
Paolo Diacono
Historia Longobardorum,II-4
Descrizione della peste di Giustiniano ( 541-542)
In questo periodo in Liguria si sviluppò una terribile peste. Improvvisamente comparvero alcuni indizi sulle case, sulle porte, sulle suppellettili e sui vestiti che, se fosse stato possibile nascondere, si notavano in misura sempre maggiore. Verso la fine dell’anno cominciarono ad apparire nell’inguine delle persone, o in altri posti molto delicati, ghiandole piccole come noci o datteri, cui immediatamente seguivano altissime febbri con grande arsura al punto che il malato in tre giorni moriva. Se superava questo periodo, aveva molte possibilità di sopravvivenza. Non si vedeva altro che lutti e lacrime. Appena si spargeva la notizia ( di un caso di peste ), la gente fuggiva per evitare la morte e abbandonava le case deserte, lasciandovi solo i cani. Le pecore erano abbandonate a se stesse, senza pastori. Mentre prima le ville e gli accampamenti erano pieni di soldati, si sarebbe potuto vedere il giorno seguente tutti questi luoghi completamente abbandonati e deserti. I figli fuggivano lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; d’altra parte i genitori abbandonavano i figli febbricitanti senza alcuna pietà. Se qualcuno, mosso da compassione, voleva seppellire qualche parente, restava egli stesso insepolto; e se moriva mentre faceva i funerali, nessuno gli tributava il mesto rito. Si poteva osservare come la natura era stata riportata all’antico silenzio: nessuna voce in campagna, nessun fischio di pastore, nessun pericolo di animale contro il gregge, nessun danno ai volatili domestici. Il grano, passata la stagione, aspettava intatto la falce del mietitore; la vigna, senza foglie, rimaneva carica di uva nonostante l’avvicinarsi dell’inverno. La tromba dei belligeranti risuonava di notte e di giorno e si sentiva da molte persone come un mormorio di un esercito. Non restava alcuna traccia dei passanti, non si vedeva nessun assassino e tuttavia gli occhi erano stracolmi della visione di cadaveri. I pascoli venivano adattati a cimiteri e le abitazioni erano diventate tane di animali. E questi terribili eventi si verificarono a Roma e in Italia fino ai confini degli Alamanni e dei Bavari.
Federico Borromeo
De Pestilentia,2-5-7
Descrizione della peste di Milano del 1630, testo che fu probabile fonte per il Manzoni
Che la peste sia anche un’arma dell’ira divina non solo è noto in base a prove naturali, ma lo affermano pure i sacri Dottori. Morì per tale contagio un mercante straricco, lo stesso che due giorni prima di spegnersi disse di non aver nessuna paura, eccetto che da parte del proprio barbiere: licenzia perciò il barbiere e ne prende a servizio un altro e lo mantiene in casa tra tutti gli altri servi: costui era malato di peste; così mercante e barbiere morirono insieme.
Inoltre è stato notato, non senza meraviglia di molti, che raramente la peste contagiava un soldato. Eppure furono dei soldati a introdurre tale male, ma pochi di loro nel frattempo perirono di questo morbo e quasi la peste non toccò le truppe germaniche causa prima del contagio. […]
Comunque, per quanto attiene a quelle cause della peste che derivano dalla natura, dalla disposizione delle cose e dalla condizione umana, si può senza dubbio affermare che la carestia che precedette il morbo in gran parte fu causa della peste stessa, quasi che la consunzione sopravvenendo dopo la carestia trovasse i corpi degli uomini indeboliti, in quanto le forze erano state distrutte, e resi quasi esangui, ed anche perché gli animi erano costernati e afflitti e pressoché ridotti alla disperazione, e da questa schiacciati e oppressi i poveri disprezzavano i poteri, i magistrati e persino la morte. Molti di loro dicevano che era meglio morire una volta per tutte piuttosto che soffrire a lungo ed essere lentamente consumati. Più o meno, tra la carestia e la peste intercorse lo spazio di un anno e appena terminata quella successe questa.[…]
Dirà qualcuno: dunque non vi era a Milano alcun pensiero di mantenere gli indigenti? C’era senz’altro, anzi con generosa larghezza molti donavano sussidi; ma poiché affluivano in città da ogni dove turbe di affamati, divenne tanto grande la folla che tutti non potevano essere nutriti e mantenuti in nessun modo. Ormai gli ospizi, i pii alberghi e i ricoveri erano pieni di poveri: e non se ne potevano accogliere né accettare di più, e giungevano talmente avviliti sia dalle offese dei soldati, sia dalla sterilità della terra, che non riuscivano più a resistere. S’eran nutriti di cortecce d’alberi, e una porzione di crusca per loro era simile a un cibo squisitissimo. In città peraltro ci fu sì e no uno che si potesse dire fosse stato consumato dalla sola carestia. Per il resto erano stati a tal punto indeboliti e consunti sia dalla violenza dei soldati che strappavano loro il pane di bocca sia, come ho detto, da tutte le altre disgrazie che, quando poi furono giunti in città, non riuscivano a mangiare e a digerire i bocconi che venivano dati loro come cibo. Poiché la peste aveva colpito corpi e animi così estenuati, tale male non era tenuto in alcun conto da persone che desideravano per lo più la morte, e morivano lietamente per non tormentarsi ancora pascolando nei prati e addentando le erbe. E questi furono casi visti in grandissimo numero.
Poiché tanto si diffondeva e aumentava la peste, penetrò profondamente negli animi l’opinione che ciò accadesse per opera di alcuni Principi, i quali, per poter realizzare i loro progetti, spargevano questi veleni e infettavano la popolazione. E poiché queste opinioni risultano abbastanza plausibili tra il volgo e sono accolte con animi creduli, di per sé tale fatto fu di grave danno alla situazione generale. Infatti, mentre sarebbe stato meglio che si ponesse ogni cura nel respingere e scacciare la peste, gli animi furono distolti a indagare chi mai fosse stato il macchinatore e l’artefice di una frode così grave. […]
Tre furono le colpe o gli errori di coloro che amministravano lo Stato in questa vicenda. Infatti da una parte non adottarono rimedi per tempo contro il male, dall’altra lo stesso tempo che si sarebbe dovuto dedicare ai rimedi lo persero cercando in qualche modo di scoprire chi fossero mai gli untori di unguenti. I loro animi erano occupati dal sospetto che fosse stata organizzata una congiura per impadronirsi della città e trasferirne il potere, cosa che io ho sempre ritenuta completamente priva di fondamento. Ciò che si sarebbe dovuto procurare fin dall’inizio o evitare, non vollero né procurarlo né evitarlo. E, per quanto il problema fosse già stato affrontato in discussioni e riunioni, tuttavia discussioni e riunioni furono prive di esito.
Avrebbero dovuto inviare fuori città non solo quelli che la peste avesse già infettato completamente, ma anche quelli che avesse indicato anche un minimo sospetto di tale male. Avrebbero dovuto far costruire ricoveri prima che giungesse la necessità stessa e l’occasione di servirsi dei ricoveri, e tale ritardo fece sì che la peste di un uomo solo ne contaminasse dieci e che dieci ne contaminassero cento. Ma dacché sempre più intensamente aveva cominciato a serpeggiare e ad aumentare il male, affinché non scomparisse la classe intera degli artigiani, i Capi e i Rettori della città, compiuta una scelta di artigiani, avrebbero dovuto mandare i Maestri di ogni attività e tutti i migliori nel proprio ramo in luoghi salubri e mantenerli ivi a spese pubbliche finché ci fosse stata la peste in città. E non sarebbe stato un impegno di così grande spesa mantenere trecento operai, quale era stato press’a poco il loro numero. Questi in seguito, conservati salvi e incolumi, sarebbero tornati in città e sarebbe stato leggero il danno in tale campo se fossero morti i giovani garzoni e gli aiutanti di infimo conto delle officine, essendo ovviamente facile la sostituzione di tale gente e facile il ritorno agli antichi opifici, affinché non scomparissero i prodotti commerciali come di fatto accadde.
Noi nei primi tempi della peste avevamo esaminato quali in tutto il clero fossero i sacerdoti più validi e migliori e, purché non fossero tenuti occupati da cura d’anime o da impegni del genere, li mandammo fuori città. In tal modo grazie a noi, furono salvati, eccetto ripeto i curatori d’anime che coraggiosamente consacrarono la loro vita alla difesa del gregge e morirono nell’adempimento del loro dovere. Del resto non si sarebbe dovuto agire altrimenti. […]
Ma non appena il contagio aveva incominciato a infierire in città, si originarono un grave sospetto e gravi terrori che esistessero degli uomini perduti che ungevano e avvelenavano tutti i luoghi e i corpi stessi, diffondendo in tal modo la peste. Sopra tale questione sono state fatte molte affermazioni e supposizioni e ci furono alcuni che ritenevano la faccenda essere completamente falsa e inventata. Del resto sempre il falso si mescola al vero, cosicché la voce popolare e la fama inventarono molti fatti sopra una faccenda di tal genere. Anzitutto circolava la diffusa convinzione che per portare la peste e la morte bastasse toccare appena con tale unguento l’abito a qualcuno, e che fossero stati portati via da questo veleno molti che invece era stata la peste stessa a distruggere. Ciò appunto accadeva per una certa abitudine degli uomini a trasferire le proprie colpe su cause esterne e, quasi cercando una scusa alla propria negligenza, dicevano non di essersi appestati per un contatto o rapporto imprudente, ma che era stato teso loro un inganno per mezzo di veleni. […]
Ora comincerò a descrivere brevemente quali fossero lo stato e l’aspetto della città allorquando infuriava al suo culmine la peste. Questo fu un periodo di circa due mesi, cioè dall’inizio di luglio alla fine di agosto. E senza dubbio i mucchi di cadaveri e il disgustosissimo fetore nutrivano ed alimentavano il contagio. Infatti, benché fossero state scavate fosse enormi e buche profonde per accogliere cadaveri, da esse giungeva l’influsso nocivo della puzza non solo alle case vicine, ma penetrava anche nelle parti più interne della città e poco mancò che fossero contaminate l’aria stessa e la porzione di Cielo diffusa sopra la città. Addirittura in quel quartiere che si chiamava Porta Nuova, dove si visita il tempio della martire Anastasia e una croce lì posta in un bivio, gli abitanti delle case furono costretti a trasferirsi altrove non potendo sopportare tale fetore. E poiché non erano state preparate le buche per accogliere i cadaveri e non bastavano i carri per trasportarli, i corpi giacevano putrefatti lungo le vie.[…]
Talora furono visti trenta carri in fila ininterrotta pesantemente carichi di cadaveri quanto dei cavalli aggiogati insieme potevano tirare. E il vicinato della Chiesa cattedrale aveva approntato un carro di inusuale grandezza, col quale, fatto andare e tornare piuttosto frequentemente, si sarebbe potuta svuotare qualunque altra città. I carri talvolta erano gravati da tanto peso che i giumenti aggiogati non bastavano ed era necessario cercare altri animali e porli sotto.[…]
Serviva a mantenere la salute il fatto che, come ciascuno usciva di casa, subito al ritorno cambiasse le scarpe e la veste. Io avevo raccomandato ai preti di usare una tonaca più corta o anche una sopravveste di lino di colore nero, per il fatto che questo indumento era più sicuro in tale occasione e la lana raccoglie più facilmente e più tenacemente la peste. […]
Ai primi paurosi sospetti di peste avevano creduto i Magistrati e i maggiorenti della città che potesse bastare ad accogliere la moltitudine il lazzaretto che fecero costruire fuori delle mura della città anticamente i Duchi di Milano, ed esso è meritatamente annoverato tra i nostri edifici degni di ammirazione. Ma in breve quegli stessi edifici si trovarono pieni zeppi e fu necessario far costruire altrove dei ricoveri. Entro quei recinti gregoriani morivano cinquecento ogni giorno e ciò per molto tempo. Tali recinti, ovvero mura del lazzaretto, nei primi giorni erano stati certo un opportuno rifugio per accogliere la moltitudine e liberare le case. Peraltro quando ormai tanta era la gente portata lì che erano disposti in dieci per ogni camera ed era necessario sistemare dei letti all’aperto in tutti i portici, si credette che la soluzione stessa avesse alimentato più intensamente la peste.
Daniel De Foe
A journal of a plague year
Descrizione della peste di Londra del 1665
Straziava il cuore di chi si avvicinava sentire le grida pietose di coloro che erano stati contagiati, i quali, essendo fuori di sé per l’intensità del dolore, o il bruciore che sentivano nelle vene, erano stati rinchiusi o forse anche legati al loro letto o ad una sedia, per impedire che si facessero del male; le loro grida erano proprio a causa del fatto che erano imprigionati e non li si lasciava morire ” in libertà”, come dicevano e come avrebbero voluto fare. […]
D’altra parte essi correvano senza meta, senza sapere quello che facevano, finché non cadevano a terra morti stecchiti, o esaurivano le loro energie ed allora cadevano per poi morire nel giro di mezz’ora o un’ora; e la cosa più straziante da udire era che in quella mezz’ora tornavano completamente in sé e quindi i loro lamenti si facevano più laceranti poiché si rendevano conto, angosciati, dello stato in cui si trovavano. Questo accadeva prima che venisse eseguito rigorosamente l’ordine di sigillare le abitazioni, poiché all’inizio le guardie non erano così rigide e severe, come in seguito, nel tenere la gente chiusa in casa; cioè prima che alcuni di loro fossero stati severamente puniti per la loro negligenza, essendo venuti meno al loro dovere ed avendo anzi favorito la fuga di molte persone, sane o malate, che erano sotto la loro sorveglianza.
Ma quando videro che le autorità preposte al loro controllo erano quanto mai decise a far sì che, se non adempivano al loro dovere, venissero puniti, diventarono più severi e la gente fu rinchiusa; il che fu accettato malissimo e lo scontento non si può descrivere; ma era una cosa assolutamente necessaria, si deve ammettere, a meno che non si fossero trovate altre misure, ma ormai era troppo tardi.
Se non fosse stata applicata quella misura di rinchiudere i malati, Londra sarebbe stata il posto più terrificante del mondo; ci sarebbero stati, per quanto ne so, altrettanti morti per strada che nelle case; poiché quando il male raggiungeva il culmine, rendeva i malati folli e in delirio, e quando erano in quello stato, non c’era modo di tenerli a letto se non con la forza; e molti che non erano legati, si gettavano dalla finestra, quando scoprivano di non poter uscire dalla porta. […]
Noi che eravamo gli Ispettori spesso non riuscivamo a sapere se il contagio era entrato in una casa finché non era troppo tardi per sigillarla, e talvolta non fino a quando tutti i suoi abitanti erano morti. In Petticoat Lane due case erano entrambe contagiate, e molte persone erano malate; ma la malattia fu tenuta così ben nascosta che l’Ispettore, mio vicino di casa, non ne seppe nulla finché non fu avvisato di mandare laggiù il carro per portare via gli abitanti che erano tutti morti. I due capifamiglia si erano organizzati in modo che quando l’Ispettore era nei pressi si facevano vedere e mentivano uno per l’altro o facevano dire da un vicino che stavano tutti bene e certamente nessuno ne sapeva di più, finché la morte rese impossibile mantenere il segreto più a lungo, ed i carri mortuari furono chiamati di notte ad entrambe le case e così la cosa fu risaputa; ma quando l’ispettore ordinò all’ufficiale giudiziario di chiudere le due case, non erano rimaste che tre persone in tutto, due in una casa ed una nell’altra, morenti, ed in ciascuna casa c’era un’infermiera; esse ammisero di averne seppelliti già cinque, che la casa era contagiata da nove o dieci giorni, e che per il resto dei componenti delle due famiglie, piuttosto numerosi, se ne erano andati, alcuni malati, altri sani, non si sapeva. […]
Si deve però osservare che dal momento che i funerali erano divenuti così numerosi, non si riusciva più a suonare la campana a morto, fare le condoglianze, piangere e portare il lutto come prima; e nemmeno fare le casse da morto per tutti quelli che morivano; tanto che dopo un po’ il contagio crebbe in modo tale che, in breve, nessuna casa fu più sigillata. Era ormai evidente che tutti i rimedi si erano rivelati inutili e che non c’era modo di opporsi alla furia della peste; tanto che l’anno seguente, quando scoppiò il grande incendio, esso divampò e si diffuse con tale violenza che gli abitanti rinunciarono a qualunque sforzo per spegnerlo; allo stesso modo quando la Peste raggiunse l’apice della sua virulenza, se ne stettero immobili a guardarsi l’un l’altro ormai preda della disperazione.
Intere strade apparivano desolate, e non solo perché erano state chiuse, ma perché prive di abitanti, le porte erano spalancate e le finestre sbattevano al vento in case vuote dove non c’era nessuno a chiuderle. In poche parole, la gente cominciava ad abbandonarsi alle sue paure ed a pensare che regole ed ordinamenti erano tutti inutili e che ormai non c’era più speranza, ma tutto era desolazione; e fu proprio al culmine di questa disperazione generale che a Dio piacque allentare la morsa ed indebolire la furia del contagio, in modo addirittura sorprendente ( come lo era stato all’inizio ), dimostrando così che era proprio la Sua Mano al di sopra, se non addirittura senza, l’aiuto di altri mezzi, come spiegherò in altra sede.