Mario Lenzi, O miei compagni. Una testimonianza, Comune di Livorno, Livorno, 2013, pp. 129-131.
Siena era stata liberata il 3 luglio e il C.L.N. di Siena aveva eletto sindaco il professor Ciampolini. Andammo con lui negli uffici del comando americano, io gli portavo la borsa, e fummo introdotti dal governatore militare, un colonnello che sapeva abbastanza bene l’italiano. L’ufficiale continuò tranquillamente a sfogliare le sue carte, con le gambe allungate e i piedi sul tavolo. Lo guardavo ammirato. Erano ancora una novità per me quelle splendide suola di cuoio senza toppe. Il Ciampolini attese per un po’ con pazienza, ma quando vide che l’altro nemmeno alzava gli occhi a guardarlo, si voltò. e venne via. Noi lo seguimmo.
Il governatore si alzò di scatto. E lo richiamò duramente: “Ma dove va lei? Come si permette? Non si dimentichi che siete stati voi a dichiarare la guerra a noi. E l’avete persa. Avete tradito il vostro alleato, vi siete buttati all’ultimo momento dalla nostra parte, siete senza onore. Si metta qui tranquillo, stia al suo posto. E parli soltanto quando glielo dico io.” Allora il professor Ciampolini tornò indietro, fissò negli occhi il colonnello ed ergendosi per quanto la sua modesta statura poteva permettergli “Signor governatore – disse dolcemente – io nella vita privata sono un modesto professore di liceo E anche come persona non valgo gran che. Però vede, io, qui davanti a lei, sono il sindaco. Lei sa che cosa è il sindaco? Il sindaco è un’espressione degli uomini liberi. Lei che viene qui a insegnarci la democrazia dovrebbe saperlo. E per di più, io, Ciampolini – sottolineò – sono il sindaco di Siena. Sa che cosa significa Siena? Bene, vada in Piazza del Campo, faccia quattro passi in giro per la città, dai Banchi di Sotto alla Piazza del Duomo, e poi torni alla torre del Mangia. Ha mai visto qualcosa di simile? Lei viene dagli Stati Uniti. Ma le città del suo paese non sono nate intorno alla piazza. Anzi, non hanno la piazza. Ci rifletta. Forse anche lei, mi creda, deve imparare qualcosa da noi.”
“Siena non è solo una città, È un momento dello spirito. Come Firenze, come Atene. Noi avevamo uno statuto cittadino più di mille anni fa. Perciò lì lei mi deve rispetto, due volte rispetto. Come sindaco e come sindaco di Siena. Anche io le devo rispetto, ma lei qui è stato mandato da un generale, io dai miei concittadini. Capisce la differenza? E per quanto riguarda le parole che ha detto – continuò Ciampolini, senza fermarsi, mentre il governatore lo guardava sbalordito, anche perché non si aspettava quel fiume di parole – mi ascolti, ci ripensi. Mi creda, noi non siamo un popolo senza onore. Siamo soltanto un popolo molto vecchio. Troppo vecchio. Ne abbiamo viste tante, di tradimenti di guerre, E non è la prima volta che siamo occupati da un esercito. Ci hanno occupato perfino i fiorentini.
“È troppo facile venir qui con la pretesa di offenderci. Anch’io sono vecchio. Non ho, come auguro a lei, tanto tempo da vivere. Lei mi parla d’onore. Ho trascorso la mia vita nello studio del diritto romano e della storia e cercando di far capire ai ragazzi, per quello che le mie forze mi permettevano, e non solo con le parole, che cos’è il diritto, che cos’è l’onore. Per questo sono stato insultato, sono stato cacciato dalla scuola E sono stato messo in galera. Io non mi sono ribellato alla Legge. Mi sono ribellato a chi aveva preso il potere nel mio paese contro la Legge. Con la violenza, l’inganno, l’arbitrio.
“Noi non siamo un popolo senza onore – ripeté Ciampolini – che ormai aveva esaurito tutta la sua carica battagliera e ansimava perché era rimasto senza fiato – L’onore che cos’è? È un rifiuto. Un rifiuto a tutto ciò che ingiusto, a quanto è sgradevole, a quello che ti dicono di fare perché sei pagato, che si regge soltanto sulla forza, che ti è imposto contro la tua coscienza. Questo è l’onore. Io, come tanti altri – balbettò, commosso – ho disobbedito a chi violentava le leggi nel mio paese e ho obbedito a quelle della mia coscienza. Che cosa ha da dirmi, lei?
“Niente- disse il governatore – Ha ragione. Gli strinse la mano. Non aveva capito proprio tutte le parole ma aveva capito l’essenziale. Da quel momento accadde un fatto insolito per un esercito occupante. Non c’era niente che il governatore facesse senza consultare il sindaco. Mi resi conto che avevamo perso la guerra, che dovevamo pagare un debito per questo, ma come aveva detto il professor Ciampolini, potevamo farci rispettare. Avevamo una lunga storia alle spalle, e partendo da quella, anche qualche speranza.