19 Luglio: Livorno ricorda la liberazione dal nazifascismo
La liberazione di Livorno attraverso le parole di un testimone diretto, Mario Lenzi.
Stefano Gallo, Ricercatore Cnr-ISMed Napoli, racconta la Resistenza in Provincia di Livorno.
Livorno, Consiglio comunale, 19 luglio 2020
Prolusione di Catia Sonetti, Direttrice ISTORECO Livorno
Desidero cominciare la mia riflessione con due brani tratti da un partigiano, giornalista e scrittore nato a Livorno, Mario Lenzi: un racconto pensato e scritto tardi per i nipoti, non un diario, ma una memoria per il futuro.
La discussione ci impegnava tutti, escluse le sentinelle, fino a tarda notte. Non ci veniva nemmeno in mente che i tedeschi ci sorprendessero con un rastrellamento… tanto assoluta era la fiducia che avevamo nella rete di famiglie contadine sparse per la campagna e la macchia. Erano loro, e anche i loro cani, a farci la buona guardia.
Un po’ alla volta quelle serate tranquille, diventarono un appuntamento anche per i contadini più vecchi dei dintorni. Cominciarono ad arrivare alla spicciolata e sempre più numerosi. Quando non c’era la luna, emergevano all’improvviso dal buio della macchia. Uscivano dalle siepi come fantasmi.
(da Mario Lenzi,O miei compagni. Una testimonianza
pp. 106-111)
Si instaura in quell’occasione, tra un vecchio contadino e un giovane ex professore, una discussione anche molto astratta; il contadino sosteneva la ragione della forza e il professore quella della giustizia:
E tutti noi, partigiani – contadini, operai, studenti, carabinieri, fascisti convertiti, il cuoco tedesco, i russi e i polacchi fuggiaschi – anche i prigionieri ex nazisti, perfino i due piloti americani, ci sedevamo in circolo e …ascoltavamo con grande rispetto ed attenzione.
Questa scrittura è elaborata da Lenzi dopo la guerra in Vietnam in cui aveva fatto l’inviato e dove gli capitò di incontrare un operaio di una fabbrica tessile che stava accanto al suo telaio dentro una buca che, come gli altri, aveva scavato per poi rimettersi subito a lavorare, passato il pericolo delle bombe. Si chiamava Lang Quam Sang e gli disse:
Noi siamo operai. Noi vogliamo fare tessuti. Come vedi la nostra stoffa è molto bella. Noi facciamo soltanto tessuti marroni e grigi per scopi militari. Vorremmo fare tessuti di tutti i colori. Anche gialli, verdi, rossi e blu. Noi abbiamo sempre vissuto in guerra: vorremmo vivere sempre in pace. Ci piacerebbe che le nostre donne e i nostri bambini vestissero di tutti i colori che ci sono nell’arcobaleno. Non dimenticarti di noi.
(p. 143)
Perché cominciare da questi due brani?
Perché vorrei attirare la vostra attenzione su due aspetti: il primo è legato all’importanza che questa piccola banda, che orbitava nelle campagne vicine a Castagneto Carducci ed era collegata con il comando tappa del Castellaccio e quindi con la rete che teneva insieme tutti i distaccamenti che andarono a formare la IIIa Brigata Garibaldi (che poi andò a formare insieme alla 23a la IIIaDivisione Garibaldi) attribuiva all’educazione dei suoi componenti ma non solo. L’assunzione della responsabilità pedagogica di fronte ai membri delle bande fu assunta da subito e non fu esercitata solo dal commissario politico, ma fu condivisa e distribuita tra i diversi ruoli. Perché? Ad un giudizio superficiale, poteva sembrare un’operazione inutile, pericolosa, un’operazione che distoglieva dai compiti fondamentali: combattere il nemico tedesco, disarmare il nemico interno, i fascisti, proteggere la popolazione contadina, non esporsi troppo a rappresaglie e agguati e molti altri ancora. Eppure tutte le bande, e ne abbiamo a decine di testimonianze, si preoccuparono di fare anche una formazione politica dei propri volontari. E chi è portato a pensare che fosse un indottrinamento si sbaglia. La Resistenza, e con essa ogni banda armata, era un soggetto plurale. Dentro c’erano elementi molto diversi, e non tutti, anzi pochi, erano quelli preparati, politicamente, ideologicamente. La maggior parte di loro volevano probabilmente in primis sfuggire ai bandi della Repubblica Sociale – volevano come l’operaio vietnamita, vivere in pace. Perché allora, quelle discussioni, nel brano citato, sotto un cielo senza luna? Perché la Resistenza si colloca dopo 21 anni di regime fascista, un regime dittatoriale, dove era stata abolita la possibilità di discutere, di associarsi, di dissentire. Dove nella scuola e anche fuori i giovani venivano incasellati in organizzazioni paramilitari sin da piccoli e non dovevano pensare, non potevano pensare criticamente. Uno storico ha scritto qualche anno fa un libro dal titolo significativo, Un popolo bambino. Perché questo è quello che fanno tutte le dittature. Vogliono ridurre tutti i loro cittadini, uomini e donne, a ritornare bambini. Hanno timore del pensiero. Il pensiero deve essere unico, quello del capo. Del resto il motto fascistissimo la diceva lunga in questo senso: “Credere, obbedire, combattere”.
E allora, nonostante la presenza dei tedeschi e dei fascisti, dare una possibilità di discutere e di immaginare il domani diventava una forma forte e indispensabile di Resistenza e un’occasione di crescita, di maturazione. Con quelle discussioni si poteva provare a darsi un altro orizzonte, immaginarsi un domani diverso, migliore. Quel domani che anche l’operaio vietnamita, molti anni dopo, partigiano civile dentro un’altra guerra, pensa e spera: probabilmente pensieri molto simili a quelli partoriti sotto il cielo della macchia di Castagneto. Perché alla fine, in tutti loro non c’era la voglia di fare il guerriero, la scelta delle armi era stata fatta perché tutte le armi tacessero. Ognuno di loro avrebbe preferito vivere senza guerra, con i colori, senza la paura delle bombe. Anche e soprattutto quelli che morirono per quella aspirazione. Aspirazione essenziale, ancora inattesa per gran parte del mondo che ci circonda. Pensiamo al conflitto in Siria, alla persecuzione dei Curdi, all’espulsione dei Rohingya, alle guerre a bassa intensità (chiamate così con un eufemismo scellerato) dell’Africa. E da sempre, dopo ogni dittatura e dopo ogni guerra contemporanea, se non ci si preoccupa di educare le donne e gli uomini, soprattutto i giovani maschi armati (questo erano per la stragrande maggioranza i partigiani, anche se le donne furono fondamentali e numerose, pur se occultate da una cultura maschilista che aveva impregnato la sensibilità di tutti, anche quella dei nostri amici partigiani), ci ritroviamo con migliaia di ragazzi che non sanno riadattarsi alla pace e alla libertà.
E l’Italia l’aveva vissuta questa difficoltà già dopo la Grande Guerra, quando la delusione e l’assuefazione alla violenza avevano portato molti a girarsi con consenso ed empatia verso i fascisti che li inquadravano, davano loro degli obiettivi, facevano sfogare la rabbia e la frustrazione che si portavano dentro.
La Resistenza invece immagina degli uomini liberi e diversi.
In quella serata descritta da Lenzi sono seduti in cerchio, per terra, anche dei nemici ad ascoltare. Ci sono italiani e ci sono stranieri, ci sono semi alfabetizzati e professori. C’è la necessità di farsi capire da tutti, c’è la necessità di fare stare tutti dentro perché da quella guerra, che fu terribile, che fu guerra patriottica, guerra di classe e guerra civile, potessero uscire migliori. Di sicuro ne uscirono le domande migliori che mai fossero state avanzate dalle forze politiche, domande che trovarono uno sbocco:
-
Referendum: repubblica / monarchia;
-
Assemblea Costituente;
-
Voto alle donne;
-
Cancellazione immediata della legge razzista.
Il 1° obiettivo per poco non fu mancato, il 2°, il 3° e il 4° furono conquistati anche se talvolta con compromessi e percorsi tortuosi (penso in particolare all’iter per arrivare al voto alle donne sul quale i legislatori dovettero tornare sopra due volte).
Ma su quali forze si muovevano, su quali gambe camminavano quelle richieste? Chi erano i partigiani, in armi e senz’armi?
Intanto non erano la maggioranza della popolazione (altrimenti non sarebbe entrato nella Costituente il partito dell’Uomo Qualunque), non erano neppure distribuiti su tutto il territorio nazionale. Il Sud fu coinvolto da una forte, coraggiosa resistenza civile, patì rastrellamenti feroci, ma venne coinvolto in misura minore nella Resistenza armata. Noi incontriamo giovani partigiani, ex combattenti dell’esercito regio dopo l’8 settembre, distribuiti nelle bande del centro nord dove si fermarono, per scelta, tantissimi siciliani, pugliesi, campani etc. Quei giovani meridionali la Resistenza la fecero nelle valli di Lanzo, nelle campagne di Cuneo e di Asti, sulle colline di Genova e in tantissimi altri luoghi lontano da casa.
Ma chi furono quelli che provarono a resistere ad un nemico straniero che occupava stabilmente tutto il paese, che era ben armato, che era ferocemente ostile agli italiani visti come traditori? Ed a un nemico interno, quello fascista, incattivito dalle sconfitte e dal voltafaccia del re?
Possiamo ipotizzare, partendo dalla nostra città, che le migliaia di cittadini che applaudivano il Duce per la conquista d’Etiopia, in quella che ora si chiama Piazza della Repubblica (una foto la ritrae, ed è un mare di un solo colore: il nero) avessero dopo i bombardamenti sulla città, la fame e i lutti, solo in parte preso coscienza del significato vero di quel regime. Certo era una coscienza tardiva, legata alle distruzioni, al razionamento del cibo, all’ordine tassativo di sfollare dal centro (in 90.000 uscirono dalla città), alla politica vergognosa della discriminazione razziale. Fu utile però, molto utile. Pagata a caro prezzo ma utile e quindi buona, quella coscienza tardiva.
Molto spesso furono le donne che presero coscienza: in loro la forza dei sentimenti si unì alla ragione e diede loro una forza straordinaria, la forza di camuffare i soldati con gli abiti dei loro mariti, fratelli, fidanzati; la forza di diventare loro i capifamiglia, quelle che si recavano in giro, lontano da casa a trovare il cibo. Le staffette, le infermiere, le partigiane armate, persino le gappiste, senza la quali la Resistenza italiana non avrebbe mai avuto il forte potere di rottura con il passato che invece ebbe.
In quella vicenda però forse va visto e rivendicato il valore delle avanguardie. Avanguardia era Bruno Bernini, lo era Don Angeli, lo era Garibaldo Benifei e Odello Frangioni, e Erminia Cremoni e Osmana Benetti, Fortunato Garzelli, Virgilio Antonelli, solo alcuni tra i nomi che possiamo citare. Erano comunisti, socialisti, repubblicani, anarchici, cristiano sociali, azionisti. Operai, sacerdoti, avvocati, medici, donne del popolo ed insegnanti, infermiere e casalinghe. Erano diversi ma collaborarono e trovarono il modo e i contenuti da condividere. Nel secondo dopoguerra, spesso su sponde diverse, dentro la cornice di una guerra fredda, si combatterono ideologicamente e politicamente, ma rimasero uniti nella rivendicazione della loro appartenenza partigiana. Che poteva significare, e spesso significò, vicinanza al Partito comunista (perché molti venivano dalle lotte clandestine, dalla guerra di Spagna, persino dalla guerra d’Etiopia ma dalla parte degli etiopi come Barontini) e il Partito comunista che fu il più attivo durante il ventennio nonostante le condanne del Tribunale Speciale, nonostante i militanti scappati dall’Italia, nonostante gli arresti e il confino. Ma accanto a loro ci furono i cristiano sociali del gruppo di Santa Giulia, ci furono i repubblicani forti a Livorno di una tradizione massonica repubblicana e liberale, i socialisti con figure ideali di caratura internazionale, assai poco studiate come Giuseppe Emanuele Modigliani, ci furono anarchici, come Virgilio Antonelli, e cattolici, come i sacerdoti Don Roberto Angeli, Don Vellutini, Don Tintori, le suore e i religiosi che aprirono i monasteri e i conventi per dare rifugio gli ebrei in fuga, i partigiani in cerca di soccorso, le famiglie sfollate, i contadini che sfamarono le bande spesso senza ricevere niente in cambio e senza trasformarsi in delatori. Ci furono idealmente anche i 650.000 ed oltre militari italiani internati, che preferirono il campo di concentramento alla possibilità di combattere ancora dalla parte dei tedeschi. E subito dopo l’8 settembre ci furono anche numerosi militari che non si arresero ai tedeschi, come Gamerra, come Labate con i soldati che li seguirono e molti altri, in Sardegna ad esempio, a Cefalonia, per indicare qualche episodio più noto.
Cosa avvicinò percorsi individuali così diversi tra loro? Io penso un disgusto profondo per la retorica del regime, una ribellione al conformismo imperante, una volontà di trovare una via, non segnata, non sicura, ma di ritrovare dignità per sé e per questo paese, dignità che sicuramente aveva perso.
Adesso però permettetemi una riflessione ad alta voce.
Una riflessione che riguarda una minoranza, quella ebraica, che fu particolarmente vessata dal Regime, quel regime nel quale anche molti di loro, come del resto i moltissimi cattolici intorno a loro, avevano creduto. Da una ricerca recente, in gran parte mia e pubblicata ma frutto anche degli studi di un’altra storica, Valeria Galimi, la minoranza ebraica livornese fu particolarmente colpita durante il Regime, sia dall’istituto dell’internamento che da quello del confino, ma soprattutto dalla deportazione. Una comunità piccola che, specialmente nelle sue fasce più povere si ritrovò priva di sostegno. Penso ai numerosi piccoli venditori ambulanti ai quali fu tolta la licenza perché – così recita il verdetto del Tribunale Speciale – “non avendo mezzi di sostentamento, potrebbero dimostrare sentimenti contrari al regime”. Vi prego di fare attenzione all’uso del condizionale. Tra loro antifascisti conosciuti come Renzo Cabib o Giorgio Orefice, e perfetti sconosciuti.
Ma la storia più terribile e che deve ancora divenire memoria condivisa, è il numero delle deportazioni che colpì questa comunità. Furono 204, e non 116 o 117 come si è detto e scritto, tutti. Furono nella stragrande maggioranza, eccetto 7 casi, catturati fuori Livorno, talvolta in località molto lontane dal centro labronico. E studiando questa deportazione è emerso in modo inoppugnabile che la grande maggioranza era sì livornese, ma rientrata da poco in città. Erano cittadini ebrei che vivevano a Salonicco, a Smirne, e in molti altri piccoli centri del Mediterraneo. Perché le forze di polizia, i fascisti locali, i tedeschi, si accanirono soprattutto su questa, che era una minoranzadentrouna minoranza? Perché erano percepiti come stranieri. I più giovani parlavano poco e male l’italiano, erano più facili da identificare, era più facile che nessuno reclamasse. Il capro espiatorio migliore.
Ed allora, oggi, poiché questa nostra celebrazione si colloca nella cornice del luglio 2020, come non vedere attinenza tra quanto accadde allora e gli episodi di razzismo e di antisemitismo sempre più frequenti in Italia e in Europa?
All’inizio della tragedia del nazifascismo, della quale gli italiani possiedono il diritto d’autore, fu facile dare in pasto alla cittadinanza, delusa dai risultati della Grande Guerra, incattivita dalla durezza della crisi del ’29, il nemico rosso. La Russia di Lenin e di Stalin erano lì e facevano paura, anche con buona ragione. E allora la caccia ai ‘sovversivi’ trovò facili applausi, ma non bastava. I prezzi umani e materiali pagati per l’avventura fascista e nazista nella guerra di Spagna e nella guerra d’Africa, ad un certo momento arrivarono al pettine. Ed allora quale soluzione più facile che ricorrere al complotto giudaico-massonico animato dagli Ebrei, gli uccisori di Cristo, quei ricchi che si cibavano del sangue degli innocenti per i loro rituali? E guardate che anche se a voi che siete qui, sembrano quello che sono: luride panzane, venivano però diffuse con la gran cassa e molti, troppi ci credevano. Così come le panzane pericolose e vergognose che girano in rete oggi.
Quindi nella nostra narrazione, dentro al fenomeno della Resistenza, va dunque annoverata non solo la resistenza armata dei partigiani ebrei (e ce ne furono anche nella nostra Regione) ma va ricordata anche la loro resistenza civile. Il loro sfuggire ai repubblichini e ai tedeschi spostandosi di zona in zona, chiedendo aiuto a sconosciuti – e furono molti quelli che diedero aiuto. Di certo però loro resistevano a due sciagure: quella della guerra, dei bombardamenti, e quella della persecuzione con destinazione Auschwitz.
Sono passati molti anni da quegli avvenimenti, molti decenni, alcune generazioni si sono susseguite. Ancora però alcuni dei protagonisti, pochi, ancora ci sono, e sono persone preziose, persone delle quali si deve avere cura e custodia. Perché viviamo in un paese molto smemorato. Perché mentre in alcune famiglie si mantiene il ricordo della Seconda guerra mondiale, ricordo privato, non abbiamo sufficiente memoria pubblica, né tra i politici, né tra i mezzi di comunicazione. È avvenuto tutto questo perché ineluttabile? Non credo. Credo che si sia fatto di tutto perché ciò si verificasse, a cominciare da molto lontano per arrivare alle ultime decisioni legislative che sono passate sotto silenzio, come la diminuzione delle ore di storia nella scuola pubblica, con un ministro di centro-sinistra.
In qualche modo noi, oggi, qui in numero ridotto a causa del Coronavirus, ma neppure in numero debordante senza pandemia, dobbiamo farci carico della educazione dei giovani e dei meno giovani. Soprattutto di quelli che vogliono occuparsi, o già si occupano della cosa pubblica. Perché non può meravigliare il gioco di certe forze che vogliono delegittimare l’antifascismo e la Resistenza, perché “sono cose del passato”, affermano. Vorrei ricordare a questi ignoranti che a pochi metri da noi, per scannarsi nel non lontano 1992, si richiamarono alla battaglia della Piana dei merli del 1389! Il passato può essere molto lontano così come molto vicino. Il tempo non è un segmento lineare, è una linea molto contorta che a volte fa salti all’indietro e a volte ne fa in avanti. Ma in questa nostra Italia c’è assai bisogno di antifascismo e c’è bisogno della memoria della Resistenza. Sono temi del presente e se sono divisivi occorre darsene una ragione e una spiegazione e non nascondere il problema sotto il tappeto.
Occorre però prendersi in carico, come facevano quei giovani partigiani nelle macchie, nelle montagne, nelle città assediate, al confino, nelle celle del carcere, dell’educazione di chi si è dimenticato, di chi non ha mai saputo, di chi non vuole sentire. Ne va del destino del paese, del destino dell’Europa.