Raccontare l’8 settembre 1943 con le parole e con le immagini
di Catia Sonetti
In questo intervento ci concentreremo su alcuni casi di narrazioni letteraria che rievoca l’8 settembre, su alcuni casi di memorie scritte locali già pubblicate, e su un film presente a tutti noi, da una certa età in poi: Tutti a casadi Comencini.
Cosa c’è di confrontabile tra una scrittura semplice, diciamo così da parte di un testimone che nelle maggior parte delle volte scrive per i nipoti e neppure per i figli, cioè prima di scrivere e raccontare aspetta che ci sai molta distanza tra gli avvenimenti che va a rievocare e la sua vita di oggi. La necessità di fare un “buon uso della distanza” su cui ragionava P. Bourdieu, sicuramente inconsapevole, che queste scritture sembrano sottintendere. Ma in qualche modo la distanza fa sì che anche alcuni resoconti di storie personali scritte negli anni ottanta, novanta e anche dopo, si presentino in qualche modo sotto un canone di interpretazione che li colloca come al confine tra letteratura e diaristica. Non sono né l’una, né l’altra. Del resto questo sentimento di ambiguità in qualche modo però sottende anche dentro le prove “alte”, quelle che appartengono per canone alla grande tradizione letteraria italiana, perché esse stesse, scritte a distanza dagli avvenimenti, piene di invenzione talvolta persino invenzione linguistico-espressiva (non è pensabile che dentro una banda partigiana per quanto colta si potesse usare l’inglese come lingua veicolare), sono piene di resoconti autobiografici, quindi di memoria. Queste ambiguità che appartengono sia al primo gruppo che al secondo, rendono a mio parere, l’analisi e gli spunti riflessivi, ancora più interessanti e per certi versi persino direi che più aumenta l’ambiguità più cresce l’interesse. E’ chiaro che, dentro questo intervento, la parola ambiguitànon ha nessuna connotazione negativa, segna solo la presenza di una scrittura che mentre è scrittura di realtà è contemporaneamente scrittura di fantasia. Nella seconda parte del mio intervento invece mi concentrerò sul film che in qualche modo ci avvicina al testo di Ficarra perché oltre che essere invenzione e proposta di rievocazione attraverso al lingua, tramite la sceneggiatura, è anche interpretazione e scrittura attraverso l’immagine.
Proviamo adesso a entrare nel primo gruppo di testi a cominciare dall’analisi della rievocazione dell’episodio “epifanico”, dove si trovava l’autore quel lontano e fatidico 8 settembre 1943. Quindi in ogni brano c’è una specie di inizio che per forza di cose si rifà alla tradizione millenaria del racconto, anche penso a quello più antico per eccellenza, quello fiabesco. In questi casi si salta “C’era una volta…” perché l’incipit di questo tipo direbbe una bugia grossolana, qui non si entra nel regno della fantasia, qui si entra e non proprio in punta di piedi, dentro una vicenda vera e per di più, una vicenda dolorosa. Ma come nelle fiabe si precisa subito il tempo e il luogo perché qui il doveè fondamentale, anzi imprescindibile, è quasi l’elemento caratterizzante e individualizzante, visto che il tempoè un tempo e chi scrive, sa, è diventato “eroico”, è una data che divide la scansione cronologica degli avvenimenti sia collettivi che individuali in un “prima” e in un “dopo”, e inserisce, a diritto, la piccola storia individuale di ciascun soldato dentro la grande narrazione della storia del Paese.
Cominciamo dal testo di Luigi Meneghello, Piccoli maestri. Lo scrittore-testimone era di servizio militare a Tarquinia quando scoppia l’8 settembre. Scrive:
È strano che non mi ricordi più come apprendessimo invece la caduta del regime; eppure dovrebbe essere un ricordo base.
Invece niente. La naia è un isolante potentissimo, eravamo impaccati tra sergenti,divise, otturatori,serpi; impaccati con gli etruschi, e con Seneca; e quello che accadeva fuori dei nostri imballaggi, credevamo per inerzia che continuasse ad essere di supremo interesse, e invece era come leggere su vecchi giornali le notizie di un altro decennio. E allora com’è andato a finire questoDe Ira? e Il fascismo,come è andato a finire? Si sentiva che il centro non era più li; la cosa, incredibile, era in realtà scontata. Inoltre avevamo sottovalutato il grado di compromissione che comportava la nostra appartenenza a un reparto militare o a un corso allievi.
Questo inizio della rievocazione dell’armistizio ci riporterà, come vedremo bene più avanti, all’inizio del film di Comencini dove il protagonista è immerso dentro all’avvenimento senza averne potuto cogliere la logica, se logica c’era. Il testo va avanti con la storia, vera/inventata?, della visita alla Biblioteca e distruzione delle effigi del re, de duce e solo tentata di d’Annunzio. Successivamente riprende come se fosse cronaca:
Otto settembre vuol dire nove, o anche dieci. Le istruzioni erano di guastare e rompere le armi, ciascun reparto per conto suo. Sotto l’occhio dei sergenti si prende il fucile 91 per la canna, si sceglie una grossa pietra, e si mena una botta a tutta forza. Il calcio si scheggia, ma il fucile c’è ancora, in buono stato, salvo la scheggiatura sul calcio. Riprovare allora, a botte furibonde, anarchiche, gridando scompostamente « Savoia! » a ogni botta. Facevamo un cerchio, e tutti spaccavano. Spacca, spacca! Si sentiva che la cosa era sbagliata, pure la soddisfazione era enorme. Peccato che da pestare coi calci dei lunghi fucili avessimo solo gli onesti macigni.
Fu la mezz’ora più sentita della guerra. Io penso che anche l’Italia dei nazionalisti ci debba essere grata di aver contribuito secondo le nostre forze a svecchiare l’equipaggiamento militare del paese, che davvero era stato un po’ trascurato.
Qui c’è l’incrocio tra storia e invenzione, anche qui vero e falso sono in bilico, più certe, a mio parere, le osservazioni amare che Meneghello fa, sicuramente cariche del dopo, della sua esperienza partigiana, dei quasi due anni che ancora separavano questi soldati dalla fine della guerra.
Si sentiva, come dico, che la cosa era sbagliata, ma confusamente; dopo aver fracassato il nostro armamento personale, girando perplessi tra le tende ci mettemmo a raccogliere fasci di altre armi intatte, e cassette di munizioni; le prendevamo su, e poi non sapendo cosa farne, le buttavamo di nuovo per terra. « Mettiamone via un po’» dissi. Forse era solo per reagire al senso di dispregio, allo sciupio di questa roba costosa.
C’era una tomba che avevamo scoperta da poco. «Diamole agli etruschi» disse Lelio, e gliele demmo; erano praticamente coevi.
All’ultimo momento ci prendemmo un fucile per uno, e qualche caricatore; li prendemmo, quasi per forza d’inerzia, perché ce n’erano tanti; non perché ci vedessimo dentro. Era lunga la strada; non sapevamo nemmeno che fosse una strada ci sentivamo come in un Circo, pagliacci vestiti da alpini.
A questo punto invece conviene fermarsi soprattutto sull’ultima frase perché questo senso di estraniamento nei confronti di una divisa che è anche una separazione di confine tra gli altri, i civili, e “noi”, i militari, che in quanto tali appartengono ad un corpo, chiuso sì ma riconosciuto, ufficiale e in quanto tale, garantito, tutto questo all’improvviso non c’è più. Nel giro di pochissimo tempo, talvolta ore, talvolta solo minuti, la divisa diventa un corpo estraneo che ti sta addosso appiccicato come lebbra, di cui ti devi liberare, da mezzo di protezione diventa un segnale che invita al tiro al piattello.
Tutt’altra descrizione, quasi telegrafica quella che ci dà Alberto Pacini, marinaio di Livorno.
Sono a Venezia in Piazza San Marco, sono le 19,30, quando insistenti si odono le voci di armistizio.
Prendo il vaporetto per il Lido e appena ci arrivo mi viene confermato che l’Italia ha chiesto l’armistizio agli anglo-sassoni. Lì per lì, pieni di gioia, Montagnani, Ulivari, Gonnelli, Giunta ed io usciamo al Lido e beviamo fino ad essere molto allegri; alle 22,30 rientriamo in caserma. La mattina dopo, appena alzato, vado in ufficio e cominciano subito le discussioni su quello che faranno i tedeschi verso di noi. Da contenti che eravamo la sera avanti, cominciano i pensieri; infatti partono per darsi prigionieri agli inglesi tutti gli allievi e molti ufficiali e il personale della RA.N. e la Accademia Navale) dove io mi trovo militare. Mi viene proposto in un secondo tempo di partire: ma dato l’enorme caos, un po’ rassicurato dai capi traditori ho deciso di seguire il destino. Il giorno 10 nuovi commenti fra i pochi rimasti al Casinò e all’Excelsior. Gli avvenimenti incalzano, noi abbiamo “tradito” l’alleato tedesco, dovremo scontare le colpe.
Qui il realismo prevale ma il senso di disorientamento è assolutamente percepibile. Questi marinai che si vanno ad ubriacare perché c’è sì, sembra, da festeggiare, ma c’è anche da stordirsi perché niente è più chiaro, niente è al suo posto. Nel giro di quattro giorni tutti saranno fatti prigionieri, tutti quelli che, come Pacini, non hanno avuto l’ardire di tirare le conseguenze da soli, che si sono continuati ad affidare a comandi dati da “capi traditori” e questa è, con ogni evidenza, una descrizione a posteriori che cerca di spiegare la decisione di “seguire il destino”.
Un altro testimone, un giovane carabiniere così descrive gli avvenimenti:
Dopo quel periodo fui nuovamente trasferito, questa volta ad un posto di blocco: esattamente a Pec, sul confine della Jugoslavia; anche durante quella breve permanenza, la mia vita militare poteva definirsi “passabile”.
In questa apparente monotonia giunse il fatidico 8 settembre 1943. Rientrai in caserma per l’ora di cena e, mentre con gli altri carabinieri stavamo consumando il pasto serale, il bollettino radio delle ore 20 comunicò che l’Italia aveva chiesto l’armistizio: così la guerra, almeno per il nostro Paese, sembrava finita. È difficile esprimere la gioia che esplose, improvvisa e corale in tutti noi dopo aver ascoltato la notizia: facemmo una gran festa, sicuri che ben presto saremmo tornati alle nostre case; in realtà si trattava di una breve ed effimera illusione. Non sapevamo ancora che il peggio doveva arrivare, poiché da alleati, come eravamo con i tedeschi, improvvisamente ne diventammo i nemici da combattere.
Infatti, il primo ordine che ci pervenne dal nostro comando battaglione fu quello di abbandonare tutto e recarci prima possibile al comando stesso, che si trovava nei pressi di Gojakovici, distante da noi circa venti chilometri.
Caricammo su un camion tutto quanto ci fu possibile reperire nell’immediato e ci mettemmo in viaggio. Ricordo molto bene che quel giorno era immerso in un’atmosfera particolare: nell’aria regnava una strana e sinistra calma, tanto insolita quanto presaga di sventure.
Interessante notare l’affinità tra le tre narrazioni prima ancora delle differenze. Tutte esprimono questa gioia forte e fugace della pensiero, un po’ folle, e tutti lo sanno che tale è, della “fine della guerra”. Chi si accanisce contro le fotografie del potere dentro una biblioteca pubblica, chi si ubriaca in un bar, chi fa “una grande festa” ma come si legge nell’ultima citazione “nell’aria regnava una strana e sinistra calma, tanto insolita quanto presaga di sventure.” Può darsi che anche questa riflessione-sensazione sia un’aggiunta a posteriore, una rielaborazione del ricordo che deve anche “giustificare a sé stesso un avvenimento così paradossale per certi versi. Attenzione però, il paradosso non sta nell’armistizio che se mai è arrivato tardi, il paradosso sta nella mancanza di ordini, in quello Stato che si scioglie come neve al sole, lasciando i suoi soldati, e quindi la generazione di maschi adulti, giovani e sani, al totale sbaraglio.
Ma torniamo ad un altro incipit, ritorniamo sul piano della letteratura, il piano di Mario Rigoni Stern:
In quel settembre del 1943 ci trovavamo verso il Brennero; i plotoni erano accampati sulla sinistra dell’Isarco, in alto nel bosco a dominare la valle. Laggiù vedevamo passare giorno e notte lunghe colonne di automezzi e treni che trasportavano soldati, carri armati, cannoni tedeschi… Alla sera, dopo il rancio, con tre compagni scendevo dal bosco per andare nell’ osteria di una frazione e fu qui, sulla porta, che incontrammo il cappellano padre ‘Marcolini che ci fermò. Aveva sentito alla radio il messaggio di Badoglio e stava facendo il giro di tutte le osterie e delle strade del paese per invitare gli alpini a rientrare negli accampamenti e a prepararsi a qualcosa di brutto.
Un’ aria pesante e un cupo silenzio gravavano su tutta la valle; sulla strada e sulla ferrovia non transitavano né automezzi né treni; i soldati tedeschi erano come spariti nel nulla e ogni tanto si sentivano delle raffiche. Una di queste, lo seppi dopo, uccise il cuciniere della nostra compagnia che stava preparando il caffè per l’indomani: all’arrivo di un automezzo tedesco aveva preso il fucile e si era messo a sparargli contro.
…. Una grande rabbia mi tormentava per quello che avrebbe dovuto essere e non era stato. Ragionando lucidamente mi rendevo conto in maniera chiara di come i tedeschi ci avessero giocato; ma più ancora mi rendevo conto di come con pochi uomini ben preparati e comandati avremmo potuto far saltare la galleria ferroviaria di Laste, i ponti sull’Isarco e le rocce sopra e sotto la strada: cosi avremmo isolato tutte le truppe tedesche che erano scese in Italia e impedito l’accesso di altre, anche occupando con i nostri reparti alpini gli alti passi dei confini. Ma io non ero un generale, ero solo un sergente anziano stanco di guerre.
Sicuramente Rigoni Stern era stanco della guerra, la campagna di Russia gli aveva insegnato a combattere e a resistere ma anche ad odiare la guerra, e ancor più chi ce lo aveva trascinato, i fascisti e i tedeschi. La sua esperienza lo porta a tentare subito, in solitario, la via della montagna, ma sarà arrestato su spia dei contadini e fatto prigioniero, verso il baltico, tra la Polonia e la Lituania. Le sue considerazioni sono quelle di un ufficiale esperto che sapeva cosa si poteva fare e che resta di nuovo deluso, come già tante volte in Russia,d ai comandi superiori, dalla vuota retorica di chi alza la voce quando è facile e poi si dimostra completamente inadeguato nel momento della necessità. Le parole qui sono scarne, quasi un resoconto di cronaca; sono parole scritte molti anni dopo, tra il 1975 e il 2000, sono ricordi sui quali Rigoni Stern ritorna nella raccolta, Storie della seconda guerra mondiale, pubblicata da Einaudi nel 2000.
E con molta più amarezza Fenoglio così descrive:
Un altro si staccò dal gruppo: «lo ero sergente. Centrami la luce in faccia, capoposto, così ci intenderemo meglio. I tedeschi non hanno accettato il nostro armistizio, i tedeschi ci hanno dichiarato subito guerra e hanno occupato le nostre caserme. Chi non scappa è preso ed ammazzato. Nel migliore dei casi ti spediscono prigioniero in Germania in carro bestiame piombato, senza mangiare nè bere fino a destino. » Un altro: «lo penso abbiano già catturato mezzo il nostro esercito. Non si può resistere, padreterni sono; un tedesco, uno, fa calar le brache a un reggimento nostro. Aveste visto a Perugia.»
Gli cascarono le braccia e il moschetto gli rimbalzò sul ginocchio. «Tu vieni già da Perugia!? »
Veramente, e ora ripartiva per casa, imboccando la più nera delle gallerie della notte.
Il sergente si voltò a dire: «Non fate i fessi, ragazzi.
Buttate tutto, niente più serve. Cercatevi qualche straccio borghese che vi mascheri un pochino e filatevela a casa. È tutto finito. Può dispiacere, ma tutto è finito così, » Lìppolis gridò: «Bada, capoposto: questi sono miserabili disertori. »
« Tutti siamo disertori ormai. »
« Noi no, noi non siamo disertori. »
«Che diserzione può esserci dove non c’è più naja? »
«Non fate i fessi, ragazzi. Avvertiti vi abbiamo avvertiti. Buttate tutto e a casa. Pensate a mamma vostra. »
Non avevano più la forza di trattenere, richiamare quelle ombre stranamente alonate di bianco che ripigliavano verso sud.
La divisa li fasciò come una tenuta di vergogna e di morte, i fucili che ancora impugnavano non li sentivano più onorevoli armi nazionali ma individuali arnesi da caccia o banditismo. Si trascinarono al tufo, per appoggiarvisi contro la vertigine. Smozzicavano le parole «esercito, armistizio, i tedeschi, il re, l’esercito»; erano atterriti e increduli, come se avessero visto una grande montagna sprofondare d’un tratto, senza boato né masse di polvere. «Ma che hanno combinato? » singhiozzò poi Lorusso.
Ma che hanno combinato? Dice Lo russo riferendosi ai generali, allo Stato Maggiore del nostroregio esercito e alcune pagine dopo con ancora più dolore e rabbia, se possibile,
All’alba avvistarono un altro branco di fuggiaschi, la luce crescente pareva polarizzarsi malignamente sul grigioverde dei pochi indumenti militari non potuti sostituire. Come videro quel drappello ancora in ordine, fecero una fulminea diversione, cosicché dovettero inseguirli di corsa e con la voce, dopo aver gettato le armi in segno di non ostilità.
Li raggiunsero al largo: tremavano di stanchezza e di orgasmo, rugosi come ottantenni, acuta nell’aria l’acidità del loro sudor freddo. Uno arrivava già da Bologna; naturalmente in treno, era sceso a una stazioncina prima di Roma, per scansare l’epicentro del terremoto. Gridò: «Venti tedeschi hanno fatto arrendere una caserma con dentro tremila di noi! » Era un meridionale tarchiato e irsuto, una canottiera smagliata su calzoni di accatto e scarpe lampantemente militari.
« E gli ufficiali? »
Esplosero tutti insieme: « Chiamali ufficiali. Non mi si parli mai più di ufficiali. Scapparono i primi, i bellimbusti avevano il vestito borghese bell’e pronto e stirato nelle pensioni. Pensare a tutto l’onore e rispetto che si è dovuto portargli, pensare che per tre anni ci hanno fatto ingoiare merda, una bella porzione ogni giorno. Lascia che abbia un figlio e la patria venga a chiedermelo soldato. Ma voi che fate? Gli eroi o i fessi? I fessi fanno. »
«Il comando non ci ha avvisati dell’armistizio, si sono completamente dimenticati di noi. » «Vedi lì i signori ufficiali. E che aspettate a mollar tutto e puntare a casa vostra? » « Ma ai tedeschi non potevate proprio resistere? Questo non comprendiamo. Se erano venti, hai detto? »
«Farsi ammazzare per chi? Per il re, o per il principe o per Badoglio? Dovunque stiano, meglio di noi poveri cristi stanno. E poi, nemmeno l’ordine hanno saputo darei. Di ordini ne è arrivato un fottìo, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparate sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidete i tedeschi – autodissannarsi – non cedere le armi. Tutti ci serravamo la testa tra i pugni, perché non ci scoppiasse. La truppa non ha tardato ad annusare il quarantotto completo, ha pensato alla pelle e a casa sua e ha mandato l’esercito a fare in c…
Voltavi gli occhi e di cento ne ritrovavi settanta, poi cinquanta, gli ufficiali rimasti allargavano le braccia o piangevano come bambini, i soldati saltavano il muro come tanti ranocchi. lo l’ho vista sì la bellezza di resistere ai tedeschi, ma mi son detto: debbo crepare proprio io per le migliaia che già corrono verso casa? A casa, a casa! Se la sbrighino gli altri, finisca come vuole, e mi sono lanciato dalla finestra giusto mentre il carro armato tedesco svoltava nel viale della caserma. Io sto a Capua e non sogno altro che casa mia. »
In questo testo l’invenzione letteraria si esercita soprattutto sull’uso della lingua, lingua che viene utilizzata come forgiandola sui contenuti, le atmosfere, i rancori che deve trasmettere. E i senso di disorientamento di questo gruppo che si trovava fuori dalla caserma in esercitazione, forse Comencini aveva letto Fenoglio, e che non vuole credere a ciò che vede, a ciò che sente. E’ troppo. Tutti loro aspettavano l’esame per passare ufficiali ed ora.. tutto perde senso. E in questa campagna dell’Agro Pontino le cose assumono una sfumatura di disperazione quasi pasoliniana, estremamente credibile e utilizzabile però, per noi, per entrare in quel dramma. Ma altrettanto drammatica è la scena descritta da Pacini dell’arresto, seguito quasi subito nel suo caso come in quello di Rigoni Stern, all’armistizio:
Si parte dal Piazzale Roma, carichi di zaini, a piedi, verso le 15: le scene di dolore che si susseguono nei 5 Km. che abbiamo fatto a piedi fino a Marghera sono indescrivibili. I tedeschi sparano la pistola, la mitraglia, ci fanno correre izzandoci il moschetto come rivolti verso delle pecore. Durante questo tragitto molti cadono, moltissimi abbandonano gli zaini e le valige, sicuro depredaggio
dei gentili … amici di ieri. Fatti i primi 5 Km. Si decidono a farei riposare, cessa così una scena di indescrivibile cattiveria e di schiavismo. Per nostra fortuna quando dovevamo fare ancora 6 Km. Di strada i filobus escono dai depositi e ci trasportano a Mestre, fra deliranti commoventissime scene di cortesia da parte di quella popolazione (tutto quello che avevano ci donavano). Non ho potuto fare a meno di piangere forte per due volte.