Le epidemie nella storia: Tito Lucrezio Caro, Giovanni Boccaccio e Alessandro Manzoni
Tito Lucrezio Caro
De rerum natura VI,1230-1286
Descrizione della peste di Atene, già descritta da Tucidide
Ma in questo flagello, la cosa più penosa e affliggente era che, appena il malato si vedeva invaso dal contagio, credendosi già condannato alla morte e perdendo ogni coraggio, giaceva immobile, il cuore colmo di amarezza; e ossessionato dalla vista dei propri funerali, rendeva sul colpo l’anima. In nessun momento il contagio del male insaziabile cessava di portare via gli uni dopo gli altri, come montoni lanosi o mandrie di buoi. Soprattutto questo accumulava funerali su funerali. Tutti quelli, che evitavano accuratamente di visitare i parenti ammalati, erano ben presto puniti per questo amore eccessivo della vita, per questa paura della morte, da una morte vergognosa e miserabile, e morivano abbandonati, privi di soccorso, vittime a loro volta della propria indifferenza. Al contrario quelli, che non avevano mai lasciato i loro cari, soccombevano pure al contagio e allo sfinimento che l’onore gli faceva un dovere di affrontare, e anche gli accenti supplichevoli di cui i malati inframmezzavano i pigri lamenti. Già i mandriani, i guardiani di greggi, i robusti conducenti dell’aratro ricurvo, tutti erano colpiti da illanguidimento; e ammucchiati al fondo delle capanne, stendevano i corpi immobili, che la povertà e la malattia restituivano alla morte. Su bambini senza vita si potevano talvolta vedere ammassati i corpi inanimati dei genitori, e talvolta anche dei bambini rendere l’anima sopra i padri e le madri. […]
E per lo più proprio dalla campagna il contagio si diffuse in città, portato dalla folla dei villici che la malattia vi faceva affluire da ogni parte. Riempivano tutti i luoghi, tutti gli edifici pubblici, così l’epidemia, trovando nelle loro file serrate una preda più facile, ammassava cadaveri a mucchi. […]
Anche i santuari degli dei, la morte finì per colmare di corpi senza vita, e dovunque i templi degli abitanti del cielo restavano ingombri dei cadaveri di tutti gli ospiti di cui i guardiani li avevano riempiti. Né la religione né la potenza divina contavano qualcosa in un tale momento: l’angoscia presente era ben più forte. Non si vedevano più nella città celebrare i riti funebri che quel popolo pio aveva fin allora praticato per l’inumazione dei suoi morti. I cittadini smarriti si agitavano in disordine: ognuno, col cuore stretto, seppelliva i suoi come lo permettevano le circostanze. Grandi orrori furono compiuti, consigliati dalla necessità dell’ora e della povertà. E se ne videro che, sui roghi eretti per gli altri, collocavano, con grandi pianti, i corpi dei propri parenti e ne avvicinavano la torcia infiammata, sostenendo lotte sanguinose piuttosto che abbandonare i loro cadaveri.
(traduzione di Olimpio Cescatti)
DECAMERON, INTRODUZIONE ALLA I GIORNATA
Giovanni Boccaccio
Il Decamerone,Introduzione alla prima giornata
Descrizione della peste che colpì Firenze nel 1348
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni altra italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza, la quale o per operazione de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’innumerabile quantità di viventi avendo private, senza ristare, d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provvedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate e in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. […] A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna pareva valesse o facesse profitto: anzi, o che la natura del malore nol patisse, o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini, senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e, per conseguente, debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra l’terzo giorno dalla apparizione de’ sopraddetti segni, chi più tosto e chi meno, e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano. […]
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi ad un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così facendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare. Ed erano alcuni, li quali avvisavano che il vivere moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità dovesse molto a così fatto accidente resistere: e fatta lor brigata, da ogni altro separati viveano, in quelle case ricogliendosi e rinchiudendosi dove niuno infermo fosse e da viver meglio, delicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare ad alcuno, o volere di fuori, di morte e d’infermi, alcuna novella sentire, con suoni e con quelli piaceri che aver potevano si dimoravano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l’andar cantando attorno e sollazzando e il soddisfare d’ogni cosa allo appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi essere medicina certissima a tanto male: e così come il dicevano, il mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quell’altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l’ altrui case facendo, solamente che cose vi sentissero che loro venissero a grado o in piacere. E ciò potevan fare di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono: di che le più delle case erano divenute comuni, e così l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor potere. E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri ed esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare: per la qual cosa era a ciascuno licito quanto a grado gli era d’adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non stringendosi nelle vivande quanto i primi, né nel bere e nell’ altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano, e senza rinchiudersi andavano attorno portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l’ aere tutto paresse dal puzzo de’ morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente. Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niun’ altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona, come il fuggire loro davanti: e da questo argomento mossi, non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altui o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere, li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse, o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta. […]
E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’ altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano. […]
E da questo essere abbandonati gl’infermi da’ vicini, da’ parenti e dagli amici, e avere scarsità di serventi, discorse un uso quasi davanti mai non udito: che niuna quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d’ avere a’ suoi servigi uomo, qual che egli si fosse, o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del suo corpo aprire non altrimenti che ad una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse: il che, in quelle che ne guarirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. […]
Per la qual cosa essi così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d’aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che addivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli, e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per gli campi, dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte, ma pur segate, come meglio piaceva loro se n’andavano. E molti, quasi come razionali, poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case, senza alcuno correggimento di pastore, si tornavano satolli. . Che più si può dire, lasciando stare il contado e alla città ritornando, se non che tanta e tal fu la crudeltà del Cielo, e forse in parte quella degli uomini, che in fra ‘ marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l’esser molti infermi mal serviti o abbandonati ne’ lor bisogni per la paura ch’ aveano i sani, oltre a cento milia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti? che, forse, anzi l’accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti. O quanti gran palagi, quante belle case, quanti nobili abituri, per addietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante, rimaser vòti! O quante memorabili schiatte, quante amplissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ippocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co’ loro parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell’ altro mondo cenarono con li loro passati!
Alessandro Manzoni
I promessi Sposi,cap.XXXI-XXXII
Descrizione della peste di Milano del 1630
Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, si ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un’ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch’era infatti; il quarto giorno morì.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto, in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l’avevano avuto in cura, e un buon frate che l’aveva assistito, caddero anch’essi ammalati in pochi giorni, tutt’e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s’era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non si propagasse di più.
Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s’attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d’ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s’ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio. Nella città, quello che già c’era stato disseminato da costoro, da’ loro panni, da’ loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c’entrava di nuovo, per l’imperfezion degli editti, per la trascuranza nell’eseguirli, e per la destrezza nell’eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell’anno, e ne’ primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s’attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de’ casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de’ pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso. […]
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l’ira e la mormorazione del pubblico, «della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe,» dice il Tadino; persuasi, com’eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto.[…]
…ma sul finire del mese di marzo, cominciarono, prima nel borgo di porta orientale, poi in ogni quartiere della città, a farsi frequenti le malattie, le morti, con accidenti strani di spasimi, di palpitazioni, di letargo, di delirio, con quelle insegne funeste di lividi e di bubboni; morti per lo più celeri, violente, non di rado repentine, senza alcun indizio antecedente di malattia. I medici opposti all’opinion del contagio, non volendo ora confessare ciò che avevan deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenti: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto.[…]
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevano presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale .Ché il sospetto sopito dell’unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima. […]
Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò che c’era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire, ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie:monatti, apparitori, commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl’infermi, e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta […] Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d’infermeria; bisognava trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni giorno. Si fecero a quest’effetto costruire in fretta capanne di legno e di paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone. E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per mancanza di mezzi d’ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva.
E non solo l’esecuzione rimaneva sempre addietro de’ progetti e degli ordini; non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva scarsamente, anche in parole; s’arrivò a quest’eccesso d’impotenza e di disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d’abbandono una gran quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose che s’istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che qualcosa si facesse per loro; e non potè ottener nulla. […]
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne potè avere; ma molto men del bisogno. Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che s’avesse a morire anche di fame; e più d’una volta, mentre non si sapeva più dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: chè, in mezzo allo stordimento generale, all’indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furono degli altri in cui la carità nacque al cessare di ogni allegrezza terrena; come, nella strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci furono pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente le cure a cui non eran chiamati per impiego.
Cap. XXXVII
Riflessioni di Don Ferrante, (nobile con ambizioni da filosofo), sull’origine della peste
l primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.
– In rerum natura, – diceva, – non ci son che due generi di cose: sostanze e accidenti; e se io provo che il contagio non può esser né l’uno né l’altro, avrò provato che non esiste, che è una chimera. E son qui. Le sostanze sono, o spirituali, o materiali. Che il contagio sia sostanza spirituale, è uno sproposito che nessuno vorrebbe sostenere; sicché è inutile parlarne. Le sostanze materiali sono, o semplici, o composte. Ora, sostanza semplice il contagio non è; e si dimostra in quattro parole. Non è sostanza aerea; perché, se fosse tale, in vece di passar da un corpo all’altro, volerebbe subito alla sua sfera. Non è acquea; perché bagnerebbe, e verrebbe asciugata da’ venti. Non è ignea; perché brucerebbe. Non è terrea; perché sarebbe visibile. Sostanza composta, neppure; perché a ogni modo dovrebbe esser sensibile all’occhio o al tatto; e questo contagio, chi l’ha veduto? chi l’ha toccato? Riman da vedere se possa essere accidente. Peggio che peggio. Ci dicono questi signori dottori che si comunica da un corpo all’altro; ché questo è il loro achille, questo il pretesto per far tante prescrizioni senza costrutto. Ora, supponendolo accidente, verrebbe a essere un accidente trasportato: due parole che fanno ai calci, non essendoci, in tutta la filosofia, cosa più chiara, più liquida di questa: che un accidente non può passar da un soggetto all’altro. Che se, per evitar questa Scilla, si riducono a dire che sia accidente prodotto, dànno in Cariddi: perché, se è prodotto, dunque non si comunica, non si propaga, come vanno blaterando. Posti questi princìpi, cosa serve venirci tanto a parlare di vibici, d’esantemi, d’antraci…? […]
– No, no, – riprese don Ferrante: – non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare. Vibici, esantemi, antraci, parotidi, bubboni violacei, furoncoli nigricanti, son tutte parole rispettabili, che hanno il loro significato bell’e buono; ma dico che non han che fare con la questione. Chi nega che ci possa essere di queste cose, anzi che ce ne sia? Tutto sta a veder di dove vengano. […]
– La c’è pur troppo la vera cagione, – diceva; – e son costretti a riconoscerla anche quelli che sostengono poi quell’altra così in aria… La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. E quando mai s’è sentito dire che l’influenze si propaghino…? E lor signori mi vorranno negar l’influenze? Mi negheranno che ci sian degli astri? O mi vorranno dire che stian lassù a far nulla, come tante capocchie di spilli ficcati in un guancialino?… Ma quel che non mi può entrare, è di questi signori medici; confessare che ci troviamo sotto una congiunzione così maligna, e poi venirci a dire, con faccia tosta: non toccate qui, non toccate là, e sarete sicuri! Come se questo schivare il contatto materiale de’ corpi terreni, potesse impedir l’effetto virtuale de’ corpi celesti! E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?
His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.