Per l’80° anniversario della Liberazione di Livorno, il dottor Giovanni Brunetti (Università di Verona – Istoreco Livorno) è stato invitato dal Comune di Livorno a tenere la prolusione. L’intervento ha chiuso una mattinata intensa ed importante, alla quale ha preso parte anche il Presidente della Regione Toscana Eugenio Giani. A seguire, il testo integrale del discorso di Brunetti:
“Gentile Signor Sindaco, gentili autorità civili, militari e religiose, gentili cittadine e cittadini.
Desidero innanzitutto ringraziarLa per l’occasione che mi concede di parlare in un’occasione così importante per la storia di questa città.
80 anni fa, nella prima mattina, elementi partigiani e dell’esercito alleato entravano fianco a fianco a Livorno. Già da due giorni alcune pattuglie di soldati americani e partigiani avevano fatto delle brevi incursioni nei borghi di Ardenza e Antignano, ma le ultime artiglierie tedesche abbandonarono il capoluogo labronico solo la sera del 18, per posizionarsi poco oltre, sull’Arnostellung. Alla prudenza degli angloamericani che intendevano procedere solo dopo massicci cannoneggiamenti, i partigiani livornesi avevano proposto un patto: sarebbero andati avanti loro, così da evitare ulteriori perdite al già provato esercito alleato. Se pensiamo quanto tempo prima gli Alleati avevano varcato i confini della provincia, con la liberazione di Piombino del 25 giugno, è immediato comprendere quanto fosse stata dura la lotta. Sul fiume Cecina si era consumato il primo grande scontro per la difesa della linea che si stendeva poco più a nord, tra Rosignano Marittimo e Castellina, non a caso sarà rinominata dai soldati nippo-americani che vi combatterono, “Little Cassino”.
Ricordando il giorno della Liberazione di Livorno così si esprimeva Bruno Gennai, partigiano livornese: «Il 18 luglio il colonnello Kait della Divisione Buffalo chiese un gruppo di partigiani pratici della zona perché guidassero il grosso [dell’esercito] verso la Città. Io ero tra quelli. Ci dividemmo in tre colonne: una s’incamminò lungo mare sull’Aurelia, una scese dal Gabbro, l’altra passò dal Crocino per avvicinarsi a Livorno da Nugola e dal Cisternino. Io ero con questo terzo gruppo. Il 19 luglio, una bella giornata di sole, tedeschi in giro non se ne vedevano. Avanzammo passando da Parrana con davanti un carro armato su cui era stato montato una specie di rastrello per far scoppiare eventuali mine. Dietro alle guide — eravamo in sette, tra cui un giovane ufficiale di Marina – veniva tutto il grosso con gli americani. Soltanto quando giungemmo verso il Cisternone sentimmo degli spari, ma in lontananza […] Avanzammo verso il centro attraversando la Città distrutta. Vicino al Mercato trovammo una ventina di tedeschi. Erano tutti disarmati, tremavano come foglie e ci vennero incontro con le mani dietro la testa. Erano rimasti lì per salvare la pelle, per loro la guerra era finita».
A partire dalla provincia di Grosseto gli angloamericani avevano avvertito alcuni cambiamenti nella fisionomia della guerra in Italia. Oltre ad una maggiore tenacia dei tedeschi preoccupati dalla conclusione dei lavori di fortificazione per la Linea Gotica, notarono come l’organizzazione militare e politica degli italiani si facesse sempre più strutturata. Era un’assoluta novità per i soldati che combattevano sul fronte tirrenico. Da un lato c’erano i Comitati di liberazione nazionale, filiazione dei Comitati d’azione antifascista sorti all’indomani del 25 luglio 1943, che chiedevano di essere consultati dai liberatori per riorganizzare la vita civile e politica nei territori devastati dagli eserciti. Dall’altro le formazioni partigiane, convinte di essersi guadagnate il diritto di partecipare alla guerra per la liberazione del Paese dai nazifascisti aiutando l’avanzata verso nord. Il primo incontro tra questi mondi avvenne ai margini della provincia, a Suvereto, dove ai giudizi degli ufficiali della 5ª Armata che combattevano in prima linea e apprezzavano l’apporto dato dai partigiani per la conoscenza del territorio, si alternavano richieste di scioglimento delle bande e riconsegna delle armi. A questo trattamento, magistralmente ricordato da Mario Lenzi nel suo libro di memorie O miei compagni, riescono a sfuggire alcuni partigiani della 3ª Brigata Garibaldi che si era formata a cavallo delle province di Livorno, Pisa e Grosseto, proseguendo la guerra a fianco degli Alleati fino alla periferia di Firenze.
Il dibattito sulla fattiva esistenza di questa grande formazione partigiana durante i mesi della lotta clandestina ha trovato una sua soluzione nelle ricerche condotte da Stefano Gallo. La brigata, così come tante altre in Italia, fu creata a tavolino nei mesi dopo la liberazione della provincia, ma non certo dal niente. La conformazione geografica della provincia non permetteva una lotta partigiana come si può classicamente intendere, ma piuttosto un tipo di guerra per bande. Per tale ragione si formarono dieci distaccamenti, con natura e modalità d’impiego diverse tra loro legate alla natura dei loro responsabili. Per fare qualche esempio, il comandante del 1° distaccamento era il repubblicano Mario Chirici, valoroso ufficiale degli Arditi nella Grande guerra e autore della prima organizzazione della Resistenza nella parte meridionale della provincia. L’area di Bolgheri venne posta sotto il comando del maggiore dei carabinieri Italo Allegri, ex comandante provinciale dell’Arma, a Bibbona c’era il dott. Luigi Ricci, e a Rosignano il falegname comunista Sante Danesin. Già da questa prima sommaria fotografia emerge tutta l’eterogeneità del movimento partigiano livornese. Al fianco di militanti antifascisti della prima c’erano semplici impiegati, funzionari dello Stato, ex militari e varie tipologie di professionisti. Il discorso si fa più intrigante se proviamo a capire chi erano i partigiani livornesi nella loro interezza. Secondo i dati forniti dalle Commissioni per il riconoscimento dell’attività partigiana, organi sorti su base regionale per dare un ordine alla massa di richiedenti dei vari brevetti riconosciuti dalla nascente Repubblica italiana, i partigiani della 3° Brigata furono 557. Un numero inferiore alle stime fatte dal comandante del 10° distaccamento Bruno Bernini nelle sue memorie di 845, o ai 1.400 – 700 partigiani e 700 “sappisti” – dichiarati dall’azionista Luciano Montelatici, ma comprensibile se contestualizzato con lo sfollamento di massa dei civili, e la relativa dispersione di nuclei e famiglie, la geografia territoriale, «un fazzoletto di terra a ridosso di una città morta ed impraticabile», l’appartenenza di tanti livornesi a formazioni che operavano in altre province e il rifiuto di molti, a guerra finita, «di fare come facevano i fascisti», e cioè avere stemmi, divise e attestati come gli squadristi durante il ventennio. Scorporando questo dato emerge come i partigiani combattenti furono 150, i patrioti, cioè quanti avevano collaborato con le reti clandestine o erano morti per mano nazifascista, 375, e 32 coloro che non vennero riconosciuti.
Al di là del mero dato numerico, la questione che si pone è capire chi sono davvero i partigiani. Sono solamente coloro che rispondono ai criteri legislativi imposti dai decreti emanati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, oppure lo sguardo si deve allargare? La risposta pare scontata, ma è necessario porsela quando si riflette su tematiche come questa. Andrebbero considerati quei militari che preferirono la scelta della prigionia o del lavoro forzato nei campi di concentramento tedeschi, piuttosto dell’adesione alla Rsi, quanti, soprattutto donne, accolsero e confortarono giovani renitenti alla leva all’indomani della pubblicazione dei bandi d’arruolamento coatto, o i semplici cittadini, che fecero finta di non capire momenti e situazioni salvando così la vita di altri. Sono forme di quella che gli storici hanno definito “resistenza civile”, molte difficile da incasellare, ma importanti da considerare per comprendere le reali dimensioni di resistenza all’occupazione.
Un dettaglio che emerge dal racconto Anna Maria Gamerra, unica donna partigiana della formazione repubblicana “Mameli”, nonché vedova del maggiore Gian Paolo Gamerra morto contro i tedeschi a Stagno nel settembre del 1943 e medaglia d’oro al valore militare, sull’aiuto fornito da alcune “sorelle” delle Croce Rossa ad alcuni prigionieri fatti dai tedeschi negli ultimi giorni di guerra. «Gli ostaggi, circa 500, erano stati portati in Via Mameli, entro l’attuale Caserma dei Carabinieri. I poveretti si trovavano senza cibo e acqua, ed erano perfino stati percossi con i calci dei fucili. Non potendo aiutarli in alcun modo risolutivo ottenni però, in veste di crocerossina, assieme alla sorella Piera Zanotti, di portar loro, con un carretto, dei pentoloni pieni di minestrone di verdura. Offersi pure ai prigionieri di nascondere armi nel fondo dei pentoloni, ma essi rifiutarono per tema di rappresaglie sulle loro famiglie. Avevamo ottenuto cibo, legumi, dai contadini nelle vicinanze, ma non bastava. Ebbi allora la fortuna di trovare nella cosiddetta “zona nera” il pastificio Carloni abbandonato. Tra le sue macerie rinvenimmo alcuni sacchi di semolino. Li caricammo su di un carretto e traversando di corsa il Corso Umberto ci salvammo a malapena mentre i proiettili delle SS ci inseguivano fischiando sulle nostre teste. Era con noi anche la mia bambina di tre anni, Adriana, nascosta
tra i sacchi. Questo semolino sarebbe servito per i famosi minestroni ai prigionieri. Viste le tristi condizioni dei prigionieri, avevo chiesto ogni giorno, ma inutilmente, il permesso di far entrare un medico ed un prete nella Caserma. Ottenni finalmente il permesso. All’indomani mattina, era l’alba, Carmen, la donnina preziosa che ogni mattino alle quattro veniva a cucinare il minestrone, mi svegliò dicendomi che era inutile prepararlo quel mattino poiché — fu una beffa — tutti i prigionieri erano già stati portati via dalle SS le quali lasciavano Livorno nella notte del 17 luglio 1944». Al di là della vicenda degli ostaggi, la rete di cui si servì Gamerra in quella occasione, che si ripeté varie volte per aiutare in ogni modo il movimento resistenziale, esemplifica bene le dimensioni che potevano raggiungere forme di resistenza “civile”.
Un aspetto che emerge bene anche nell’attività del gruppo guidato dal don Roberto Angeli, anche lui partigiano combattente, assistente della Fuci diocesana e parroco di San Jacopo. In contatto con il Partito d’Azione fiorentino grazie alla presenza dell’archivista fiorentina Anna Maria Enriques Agnoletti, il gruppo dei cristiano-sociali di don Angeli fu in grado di aiutare gli ebrei, gli antifascisti e i prigionieri alleati di passaggio dalla zona, anche prima dell’8 settembre 1943. I contatti con la Resistenza romana permisero a questa rete di passare dalla sola assistenza al vero e proprio spionaggio militare, col padre di don Roberto, Emilio, tra i più attivi nel recuperare mappe, informazioni e piani strategici per la difesa tedesca. Furono loro a favorire lo sbarco di alcuni ufficiali monarchici provenienti da Bari e Brindisi, come il sottotenente del genio navale Dante Lenci, medaglia d’argento al valore militare alla memoria. L’arresto del padre di don Angeli a Roma nel maggio del 1944 mise fine alla rete. Nell’arco di pochi giorni vennero tutti arrestati, andando incontro a destini differenti: don Angeli venne deportato prima a Mauthausen e poi a Dachau, riuscendo a sopravvivere; suo padre fu seviziato a Via Tasso; Anna Enriques Agnoletti venne fucilata dai fascisti comandati da Mario Carità a Firenze.
La nascita di reti assistenziali livornesi durante l’occupazione nazifascista non deve comunque indurre a credere che non ci fu chi decise di collaborare con i nuovi occupanti. L’adesione della città al regime era stata ampia e variegata, non solo riferibile ad alcuni circoli della borghesia imprenditoriale spaventata dalla crisi sociale e politica del primo dopoguerra, venendo scalfita solo dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e il suo impatto sul territorio. L’epopea della famiglia Ciano esemplifica magnificamente la vischiosità di questo legame, con gli interessi politici, economici e culturali che legarono la città a «Ganascia», il consuocero del regime. Ma il fascismo di tanti livornesi sopravvisse anche alla caduta di Mussolini, per riemergere con maggiore violenza dopo la proclamazione dell’armistizio. Come è possibile leggere nelle carte d’archivio, il fenomeno del collaborazionismo fu molto vasto, legato ad ogni ambito del vivere quotidiano. Senza scendere nei particolari, vi basti ricordare che la maggioranza dei reati per collaborazionismo che vennero perseguiti nell’immediato secondo dopoguerra riguardavano la delazione, le requisizioni e razzie contro i civili, l’aver preso parte a rastrellamenti e arresti e l’aver fatto da interpreti ai tedeschi. Come la Resistenza, quello collaborazionista, o sarebbe meglio dire fascista-repubblicano, fu un fenomeno che conobbe una dimensione intergenerazionale, legata ad entrambi i generi e con differenti piani d’azione. Tra i tanti esempi che potrei portare cito quello relativo alla deportazione di «30 ebrei livornesi», così è indicato nelle carte d’archivio, nel dicembre 1943 dall’attuale caserma dei carabinieri di viale Fabbricotti, all’epoca sede della Guardia nazionale repubblicana, ad opera di un imprenditore livornese. La vicenda pone tutta una serie di quesiti che chiedono di essere sciolti: Chi erano questi ebrei? Perché si trovavano ancora a Livorno? Che fine fecero? Solo per fare alcuni esempi. Dimostrando implicitamente quanto lavoro abbia ancora di fronte a sé la ricerca storica, dopo oltre 80 anni dagli eventi.
Ovviamente nel nostro discorso non possiamo non prendere in considerazione l’esperienza antifascista livornese di lungo corso, iniziata a ridosso del Primo dopoguerra. La reazione alle violenze squadriste degli Arditi del Popolo, i fatti legati alla Marcia su Livorno dell’agosto 1922, gli oltre 2.000 schedati nel Casellario politico centrale, l’esperienza dell’esilio e del carcere di tanti di loro, i processi del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato contro l’organizzazione comunista livornese.
Una nota che merita di essere ricordata, anche per sottolineare come siano state date nel tempo letture piuttosto sommarie alla storia livornese. Dal 1932 al 1943 il presidente del tribunale attraverso il quale passò tutto l’antifascismo italiano, era un livornese: Antonino Tringali Casanuova. Nonostante svolgesse la sua attività politica a Roma, Tringali si tenne sempre aggiornato sulla vita labronica, influenzando la carriera di personalità e autorità locali.
Tornando al tema degli antifascisti, si possono citare i casi più noti, come quelli di Ilio Barontini, dei fratelli Mazzino e Oberdan Chiesa o Aramis Guelfi, tutti attivi sia nel movimento comunista clandestino nel corso degli anni Trenta che nel movimento resistenziale.
Ma oltre ai comunisti, è importante sottolineare come le anime dell’antifascismo livornese furono variegate. Accanto ai componenti di questa famiglia politica si affiancarono anche gli anarchici, che pagarono il prezzo più alto in termini di vite umane contro lo squadrismo; i socialisti, e i repubblicani, permettendo la sopravvivenza di diverse forme di antifascismo per oltre due decenni. L’esilio segnò la vita di alcuni dei loro esponenti, anche illustri, come l’onorevole Giuseppe Emanuele Modigliani, fratello del celebre artista. Costretto a rifugiarsi con la moglie Vera Funaro, autrice di un bellissimo libro di memorie intitolato non a caso Esilio, a Parigi dal 1926, dopo essere stato vittima di varie azioni squadriste, anche nella nativa Livorno.
Si deve alla vivacità dell’antifascismo livornese se, rispetto al modello dell’esarchia romana, nell’alleanza interpartitica che si formò dopo la caduta del fascismo confluirono anche gli anarchici e i cristiano-sociali, oltre a comunisti, repubblicani, socialisti, democristiani, liberali e azionisti. Su quest’ultimo gruppo di antifascisti, particolarmente rilevante per il peso che ebbe nel mondo intellettuale del dopoguerra italiano, merita essere ricordato come il segretario della federazione livornese fu l’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, giovane ufficiale dell’esercito “alla macchia” dopo la proclamazione dell’armistizio.
L’esperienza di unità politica antifascista dei livornesi fu la più longeva di tutta Italia, iniziata nel 1944 e andata ben oltre la nascita della Repubblica italiana, conclusasi solamente nel 1951. Le ragioni di questa duratura alleanza, come ha dimostrato Gianluca Della Maggiore, sono da ricercare anche nello stato di distruzione in cui la città era stata lasciata dalla guerra. Dino Lugetti, segretario provinciale della Democrazia Cristiana tra il 1946 e il 1948, sostenne di essersi opposto più volte agli ordini della Segreteria nazionale che voleva imporre l’uscita dalla coalizione di giunta: «Avevamo bisogno di ricostruire la città e quindi era necessario stare nell’amministrazione unitaria perché pensavo e pensavamo (ad esempio con il prof. Merli che era assessore) che saremmo stati molto più utili dentro che fuori per la ricostruzione della città, non per spartirsi la torta degli assessorati».
Stando ai dati forniti dall’Ufficio Tecnico Comunale fu appurato che nel centro rimasero intatti solo 1’8,38% degli edifici, mentre il 33,38% vennero abbattuti e il 27,94% gravemente danneggiati. In tutto il comune solo il 43,14% degli edifici risultarono illesi o poco lesionati, il 15,78% irrimediabilmente distrutti, il 14,94% gravemente danneggiati, ed il 26,14% riparabili.
Anche la vicenda del patrimonio culturale livornese è paradigmatica in questo senso. Nei primi anni della guerra erano state rimosse solamente alcune delle opere più preziose, come le collezioni antiche della Labronica, considerando improbabili le azioni aeree sulla città. Dopo i pesanti bombardamenti del maggio e giugno 1943 fu deciso di mettere in salvo tutto ciò che si poteva rimuovere. Furono così trasportate a Calci e a Firenze tutte le statue e le collezioni artistiche, librarie e archivistiche presenti in città, come il patrimonio dell’appena nata Sezione dell’Archivio di Stato. Fu rimossa la statua di Fattori da Piazza della Repubblica, quella di S. Giovanni Nepomuceno all’inizio della Venezia, e il più simbolico per i livornesi e i turisti, l’intero complesso dei “Quattro Mori”. La vicenda di quest’ultima opera era abbastanza singolare. I bronzi dei mori erano stati trasportati al Cisternino di Pian di Rota, nel 1942, mentre la statua in marmo di Ferdinando I era rimasta a sorvegliare l’antico porto mediceo. Il timore di nuove incursioni sul porto convinse la Soprintendenza a rimuovere anche quello, perché, come disse il suo responsabile «se fosse andata distrutta, come più volte rischiò di andare, la statua di Ferdinando I con relativo basamento, come avremmo potuto ricollocare poi i Quattro Mori?». Se oggi possiamo ancora ammirare l’intero gruppo scultoreo si deve a quella decisione. Guardando le foto delle macerie dell’antica cattedrale, oppure ai resti ancora visibili in via della Madonna o nei giardini di Villa Fabbricotti della Chiesa degli Armeni è facile immaginare come la guerra avrebbe facilmente cancellato tutte le testimonianze della secolare storia livornese, spezzando il filo rosso che collega la “Città delle Nazioni” alla Storia europea e mondiale.
Come avrete capito le questioni che ho affrontato offrono solamente un inquadramento sommario di ciò che significò quel 19 luglio di 80 anni fa per la città e il suo territorio. Avrei potuto farvi altri esempi, soffermarmi su vicende diverse, scegliere altri casi specifici. Potevo parlarvi del Maggiore di porto Giuseppe Massimo, che a Portoferraio, dopo il bombardamento tedesco sui locali stabilimenti industriali del 16 settembre 1943, decise di unirsi al fronte clandestino venendo per questo ricercato, catturato e deportato a Mauthausen. Della squadra di poliziotti comandata dal tenente Vittorio Labate, che cercò di raggiungere i partigiani comandanti da Bernini sul finire di giugno, venendo trucidati dai tedeschi nei pressi di Nugola e lì torturati per poi essere passati per le armi. Oppure delle diverse strade che i fascisti livornesi percorsero dopo l’evacuazione dalla provincia, nel giugno del 1944, insanguinando diverse province dell’Italia settentrionale. Una vicenda è quella dell’eccidio di Villamarzana, con le sue oltre 40 vittime, tanto ignota ai livornesi quanto tristemente presente ai polesani. La storia dell’avvocato Ugo Bassano, ebreo e comunista, che cercò di mettere a posto i conti con il fascismo nell’intera provincia di Livorno, insieme all’avvocato repubblicano Giovanni Gelati e al prefetto cattolico Francesco Miraglia. Ma anche delle traiettorie che fecero i partigiani livornesi dopo la guerra, stretti tra la morsa della dilagante povertà, la scarsa considerazione dei governi centristi e le persecuzioni messe in atto dalla magistratura e dalle forze polizia.
Quelli che ho elencato sono solo alcune dei temi che l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea nella provincia di Livorno (Istoreco) sta approfondendo, cercando di portare avanti un discorso in grado di coniugare un’attenta ricerca storica – i tanti studiosi che hanno lasciato traccia nella bibliografia livornese nel corso degli anni ne sono la prova più importante – con la più inclusiva divulgazione scientifica. Il rafforzamento che recentemente è stato dato ai rapporti con alcune delle principali istituzioni culturali cittadine va in questo senso, con lo scopo di raggiungere, si potrebbe dire quasi scovare, un pubblico che appare sempre meno consapevole del passato e sempre più legato ad un eterno oblio “presentista”. Non si tratta certo di idolatrare passivamente memorie e vicende polverose, ormai distanti per cultura e formazione ai diversi componenti della società di oggi. Piuttosto, attraverso strumenti, volti e soluzione differenti, cercare di togliere la patina poco invitante che i decenni hanno sedimentato su quelle storie, in modo da far risaltare tutto il loro significato. Tutto questo affinché si diffonda una maggiore consapevolezza, non solo del passato, in ognuno di noi, e sia possibile contrastare l’abitudine al disimpegno, al disinteresse, alla passività prima che questi ci risucchino in un vortice senza via di uscita. Quella che sto indicando è un impegno molto complesso perchè Istoreco sia in grado di farsene carico in solitudine, ma sono convinto che con il concorso di Lei, Signor Sindaco, e di tutte le autorità qui presenti, possa essere affrontato con serenità e speranza per il futuro”.
Vi ringrazio per l’attenzione.